UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA «LA SAPIENZA»
L’Approccio qualitativo per la comprensione e interpretazione del reale
mercoledì 27 giugno 2007
domenica 24 giugno 2007
Bibliografia
AA.VV., Cultura Socialità tempo libero: Indagini multiscopo sulle famiglie, ISTAT, Roma, 1996
AA.VV., La strategia competitiva, Franco Angeli, Milano, 1997
AA.VV., Manuale delle Professioni Culturali, UTET, Torino, 1997
ADORNO T.W., HORKEIMER M., Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1993
ALESSANDRINI G., Apprendimento Organizzativo la via del Kanbrain, Edizioni Unicopoli, Milano, 1995
AMERIO O., Teorie in psicologia sociale, Il Mulino, Bologna, 1991
ARCHIBALD R.D., Project management, Franco Angeli, Milano, 1996
ARGANO L., La gestione dei progetti di spettacolo, Franco Angeli, Milano, 1997
BARTHES R., Il sistema della moda, Einaudi, Torino, 1989
BARTHES R., L’impero dei segni, Einaudi, Torino, 1989
BARTHES R., Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1989
BATESON G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Torino, 1976
BAUDRILLARD J., Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 1992
BAUDRILLARD J., L’illusione della fine, Anabasi, Milano, 1993
BAUDRILLARD J., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1992
BAUDRILLARD J., Per una critica dell’economia politica del segno, Marzotta, Milano, 1994
BENJAMIN W., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1991
BERARDI B., WARGLIEN M., “I dilemmi dell’apprendimento”, in Sviluppo e Organizzazione, n. 116, 1989
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BERGER P.L., LUCKMANN T., La realtà come costruzione sociale, Il Mulino, Bologna, 1992
BERTINI G., TOMASSINI M., TOMMASI C., “L’audit dell’apprendimento organizzativo”, in Sviluppo & Organizzazione, n.148, 1995
BONAZZI G., Storia del pensiero organizzativo, Franco Angeli, Milano,1995
BRANZAGLIA C., Immaginari del consumo giovanile, Costa e Nolan, Genova, 1996
CANEVACCI M., Sincretismi, Costa e Nolan, Genova, 1993
CANNAVÒ L. (a cura di), Le reti di Prometeo, Franco Angeli, 1997
CARAMAZZA M., “La competenza politica del project manager”, in Economia & Management , volume n.16, settembre 1990
CARRETTA A., MURREY M. DALZIEL, MITRANI A., Dalle risorse umane alle competenze, Franco Angeli/Azienda moderna, Milano, 1993
CHOMSKY N., Saggi linguistici, volume III, Boringhieri, Torino, 1989
CIBORRA C., LANZARA G.F. (a cura di), Progettazione delle nuove tecnologie e qualità del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1992
CLARK A., Microcognizione, Il Mulino, Bologna, 1994
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CRITICAL ART ENSEMBLE, Sabotaggio elettronico, Castelvecchi, Roma, 1995
CUTTIN M., “Il controllo di gestione nelle imprese che organizzano congressi”, in Amministrazione & Finanza, n. 18, 1996
DAL POZZO M., GATTANI A., MATTEI C., Le Manifestazioni Sportive, I.ST.O.A., Bologna, 1988
DAZIERI S., Italia overground, Edizioni Synergon, Bologna, 1996
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DE MASI D., A. BONZANINI A. (a cura di), Trattato di Sociologia del Lavoro e dell'organizzazione. Le tipologie, Franco Angeli, Milano, 1984
DE MASI D., BONZANINI A. (a cura di), Trattato di Sociologia del Lavoro e dell’organizzazione. La ricerca, Franco Angeli, Milano, 1984
DEBORD G., La società dello spettacolo, Sugarco, Milano, 1988
DELEUZE G., Critica e clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996
DELEUZE G., Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997
DELEUZE G., Foucault , Feltrinelli, Milano, 1987
DELEUZE G., Guattari F., L’anti-edipo, Einaudi, Torino, 1975
DELEUZE G., Guattari F., Mille piani, Ist. Enc. Treccani, Roma, 1987
DONATI P., Sociologia del terzo settore, NIS, Roma, 1996
FEUERBACH L.A., L’essenza del cristianesimo, Editori Riuniti, Roma,1984
FIGHIERA G.C., I congressi: prodotto e mercato, Franco Angeli, Milano, 1995
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FRANCHELLA A., Relazioni Pubbliche, Lupetti & Co., Milano, 1992
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GIULI M., Creare valore con il servizio, Franco Angeli, Milano, 1997
GOFFMANN E., La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 1994
HEBDIGE D., Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale, Costa e Nolan, Genova, 1997
KHARBANDA O., STALLWORTHY E., Il lavoro in team, De Agostini-Franco Angeli, Milano, 1994
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MARCUSE H., L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1991
MEYROWITZ J., Oltre il senso del luogo, Baskerville, Bologna, 1993
MORGAN G., Images. Le metafore dell’organizzazione, Franco Angeli, Milano, 1989
NEGRI A., “Il dominio e il sabotaggio”, in I libri del rogo, Derive/Approdi e Castelvecchi, Roma, 1997
NEGROPONTE N., Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano, 1996
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ORIOLI A. (a cura di), Lavorare nel no-profit, Il Sole 24 Ore Libri, Milano, 1997
ORTOLEVA P., Mass media, nascita e industrializzazione, Giunti e Casterman, Firenze, 1995
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QUAGLIONE V., SPANTIGATI F., UNNIA M., Professione comunicatore, Etaslibri, Milano, 1991
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SABBATELLI V., “Industria culturale e spettacolo dal vivo: una nicchia di mercato”, in PARTES - Rivista di management delle attività culturali, www.baskerville.it/partes, 1997
SENGE P.M., La quinta disciplina, Sperling e Kupfer Editori, Milano, 1992
STACEY R.D., Management e Caos, Guerini e Associati, Milano, 1996
TAIUTI L., Arte e media, Costa e Nolan, Genova, 1996
TATARELLI G., L’organizzazione sportiva, C.O.N.I. Scuola dello Sport, Roma, 1986
TEECE D.J., La sfida competitiva, MacGraw-Hill, Milano, 1989
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TOMASSINI M., Alla ricerca dell’organizzazione che apprende, Edizioni Lavoro, Roma, 1993
VIRNO P., Mondanità, Manifesto libri, Roma, 1995
VITERITTI A., Apprendimento organizzativo e pratica gestionale, manoscritto non pubblicato, 1995
WARGLIEN M., Innovazione e impresa evolutiva, CEDAM, Padova, 1990
WEICK K., Organizzare, ISEDI, Torino, 1993
WEICK K., Senso e significato nell’organizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997
WIENER B., Cibernetica, Bompiani, Milano, 1991
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WARGLIEN M., Innovazione e impresa evolutiva, CEDAM, Padova, 1990
WEICK K., Organizzare, ISEDI, Torino, 1993
WEICK K., Senso e significato nell’organizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997
WIENER B., Cibernetica, Bompiani, Milano, 1991
Il sensemaking
Dal senso al significato Coord. Giuseppina Miccoli, del_senso.doc
Abbiamo già trattato Weick all’interno della “deriva” cognitivista, soprattutto per quanto concerne i concetti di enactment e loose coupling. Ci interessa sottolineare ora che molto spesso inserire un autore in un filone scientifico equivale ad ingabbiarlo all’interno di un sistema di riferimento, impedendo di comprendere o di sviscerare completamente il suo contributo. Ed è probabilmente quello che può accadere se si considera Weick semplicemente un esponente del cognitivismo e non si segue l’evoluzione del suo pensiero dall’interesse per la creazione di significato a livello individuale, a una fase in cui si parla “chiaramente e coerentemente in termini di interazioni tra individui piuttosto che di singoli attori” (Weick,1997). Secondo Weick l’organizzazione è fondamentalmente il risultato di “processi conversazionali e di apprendimento reciproco dei soggetti umani” (Weick,1997).
Il linguaggio non appartiene al soggetto isolato, non è una creazione specificatamente individuale, ma è una forma continuamente plasmata e arricchita dai processi relazionali, dalla condivisione dei mondi intrapsichici.
Per Weick le organizzazioni esistono nel momento in cui gruppi di donne e di uomini si incontrano, e sulla base di una conversazione riescono ad elaborare un loro linguaggio.
Le costruzioni linguistiche nelle organizzazioni sono alla base del concetto di ambiguità.
Il concetto di ambiguità è strettamente pragmatico dal punto di vista dell’evoluzione e dell’adattamento. Esso equivale alla mediazione che avviene quando due individui, sulla base del proprio punto di vista, delle proprie capacità, sviluppano delle visioni differenti rispetto ad una situazione, eppure possono accordarsi su un sentimento di consenso reciproco senza, per questo, cambiare troppo di loro stessi, mantenendo un elevato grado di diversità. Lo spazio di ricerca che connette il passaggio dall’individuale al collettivo con la nozione di ambiguità è quello dell’esplorazione del concetto di senso e significato. Il senso ha per sua stessa natura una dimensione ambigua, in quanto il senso nasce per far fronte al caso e all’indeterminazione, alla stessa maniera della nascita del legame sociale, mentre è una via essenziale della nostra progettazione della vita e del mondo.
Il senso ha una componente istintiva e interpersonale che parte dall’individuo nel momento in cui incontra l’altro. Il soggetto attiva movimenti intrapsichici per far fronte all’indeterminatezza di una situazione cercando un orientamento verso l’altro e le cose. Questo processo è alla base della costruzione del rapporto con se stessi che si origina attraverso il rapporto con l’altro: “L’essere in relazione precede il mio essere sociale” (Weick, 1997).
Il significato ci pone di fronte allo spazio riflessivo dell’intenzionalità, ai processi intrapersonali e quindi ai vissuti collettivi della visione scambiata, dichiarata e verificata: “ la superficie oggettiva delle soggettività” (Weick, 1997). Il senso emerge in quanto siamo noi a costruirlo sulla base di come percepiamo il mondo; il significato consiste nella costruzione della struttura di segni attraverso il processo di simbolizzazione.
Il sensemaking è quel processo di coevoluzione continua tra il senso (preriflessivo) e il significato (riflessivo). Letteralmente sensemaking significa costruzione del significato tramite gli agenti attivi, l’interazione fra gli individui. Questo processo colloca gli stimoli entro una “cornice di riferimento” che serve ad indicare un punto di vista comune che guida le interpretazioni. La costruzione di significato è un ciclo ricorrente che ha un inizio, nel momento in cui gli individui formano anticipazioni e presupposizioni, inconsce e consce, che servono come previsioni per gli eventi futuri, ma che non ha una fine. Gli eventi discrepanti, o sorprese, rispetto alle previsioni, innescano il bisogno di nuove spiegazioni, di una rilettura a posteriori, attivando un nuovo processo di sensemaking in grado di elaborare interpretazioni sulle discrepanze. Il sensemaking non si occupa semplicemente di costruire cornici nelle quali collocare gli stimoli, ma svolge anche altre attività tese all’esplorazione dell’ambiente, all’interpretazione e alle “risposte associate”. Altri autori (Thomas, Clark, Gioia, in Weick, 1997) infatti ci descrivono il sensemaking come un’interazione reciproca tra la ricerca di informazioni, l’attribuzione di significati e l’azione.
Ne risulta che il sensemaking si sviluppa sia sull’attività individuale che su quella sociale e che queste attività sono comunque imprescindibili.
Il sensemaking è un’attività che riguarda i modi in cui le persone generano quello che interpretano. La creazione e l’interpretazione sono intrecciate. Il concetto di sensemaking sottolinea l’azione, l’attività e l’ideazione che sottostanno alle tracce che vengono interpretate e poi reintepretate.
In questo senso il sensemaking è diverso dall’interpretazione. Il sensemaking riguarda un’attività o un processo, mentre l’interpretazione descrive soprattutto un effetto. L’interpretazione implica che qualcosa esista là, un testo nel mondo, che attende di essere scoperto o avvicinato. Il sensemaking riguarda più l’invenzione che la scoperta. Intraprendere un processo di sensemaking significa costruire, filtrare, incorniciare, e trasformare la soggettività in qualcosa di più tangibile.
“Il senso è comune, comunicante, comunicato, in comune per definizione. Supponendo che la mia esistenza abbia un senso, esso è ciò che la fa comunicare e ciò che la comunica a qualcos’altro che non sono io. Il senso costituisce il mio rapporto a me in quanto in rapporto ad altro. Un essere senza altro (o senza alterità) non avrebbe senso” (Nancy, in Weick, 1997).
5.1 Le sette proprietà del sensemaking
Il sensemaking è un processo:
1. fondato sulla costruzione dell’identità;
2. retrospettivo;
3. istitutivo (enactive) di ambienti sensati;
4. sociale;
5. continuo;
6. generato su (e da) informazioni selezionate;
7. guidato dalla plausibilità più che dall’accuratezza.
Queste sette caratteristiche servono da linee guida nell’indagine sul sensemaking, nel senso che suggeriscono che cosa è il sensemaking, come funziona e dove può fallire.
Il sensemaking come processo fondato sulla costruzione dell’identità. Il sensemaking inizia quando qualcuno dà senso. La frase “Come posso (Io) sapere che cosa (Io) penso finché (Io) non vedo cosa (Io) dico?” è incentrata su una persona che sta facendo sensemaking (sensemaker). In realtà il sensemaker non agisce mai da solo come creatore di senso. Quindi ogni creazione di senso, che avviene attraverso gli altri, è anche una creazione di sé, della propria identità.
Il sensemaking come processo retrospettivo. L’idea di un sensemaking retrospettivo deriva dall’analisi di Schutz (in Weick, 1997) del “vissuto significativo”. La parola chiave di questa espressione è il vissuto che rimanda al concetto di passato per cogliere il fatto che le persone possono sapere che cosa stanno facendo solo dopo averlo fatto. L’uomo ha infatti scoperto che il mondo da lui percepito è in realtà un mondo passato. “Qualsiasi oggetto esterno al corpo, per quanto vicino, è passato di almeno un infinitesimo di secondo nel momento in cui lo percepiamo” (Hartshorne in Weick,1997). Per accorgerci della realtà è necessario uscire dall’irrazionalità del nostro vissuto, estraniarsi, per poi ricomporlo, attraverso la riflessione, in maniera razionale.
“L’atto del rivolgimento infatti presuppone un vissuto divenuto, trascorso, già compiuto, in breve un vissuto passato” (Schutz, in Weick, 1997).
Weick paragona l’atto retrospettivo all’irradiazione di un cono di luce su una porzione di realtà, che si diffonde all’indietro, partendo dal presente e portando con sé sentimenti, progetti, che influenzeranno la qualità e la quantità del vissuto analizzato.
Tutto quello che è in atto ora, al momento del presente, determinerà il significato di tutto quello che è appena avvenuto.
Il sensemaking come processo istitutivo di ambienti sensati. In questa analisi Weick connette l’attività di sensemaking con il concetto di enactment, ovvero la produzione da parte degli individui dell’ambiente che si trovano ad affrontare.
Il mondo socialmente creato diventa un mondo che vincola azioni ed orientamenti. Non esistono né ambienti attivi di fronte a gente passiva, né ambienti passivi messi in movimento da gente attiva. Non esiste un ambiente staccato dall’individuo che genera stimoli, ma la gente riceve stimoli come risultato delle proprie attività. Gli individui istituiscono l’ambiente che istituisce la loro identità.
Il mondo socialmente creato diventa un mondo che vincola azioni e orientamenti. E’ il trascorrere del tempo che ci fa percepire il mondo come una realtà oggettiva definita dall’esterno nella quale i soggetti giocano ruoli preordinati. E’ questa istituzionalizzazione delle cose sociali come modi di fare le cose, e la trasmissione di tali prodotti, che collegano le idee sul sensemaking a quelle della teoria istituzionale. Il sensemaking è la materia prima dell’istituzionalizzazione.
Il sensemaking come processo sociale. “Il pensiero umano e il funzionamento sociale (..) sono aspetti essenziali l’uno dell’altro” (Resnick in Weick, 1997). La realtà sociale è un reticolo di significati condivisi intersoggettivamente che vengono mantenuti attraverso lo sviluppo e l’uso di un linguaggio comune che permette l’interazione sociale quotidiana. Il sensemaking oltre ad essere un processo cognitivo è soprattutto un processo sociale, dove le interazioni tra gli individui modellano costantemente le interpretazioni e l’interpretare. Un individuo crea pensieri originali ogni volta che interagisce con gli altri, e poi li comunica alla comunità più ampia. Se queste idee sono attuabili, vengono generalizzate dalla comunità ed entrano a far parte della cultura. Il sensemaking non è mai portato avanti da un individuo in solitudine poiché quello che si fa interiormente è comunque condizionato dalla presenza degli altri. Anche un monologo presume la presenza di un pubblico e cambia al cambiare del pubblico stesso.
Il sensemaking come processo continuo. Il sensemaking non ha mai un inizio. Il motivo è che la pura durata non si ferma mai. Le persone stanno sempre nel mezzo delle cose, che diventano cose solo quando quelle stesse persone esaminano il passato da un punto al di là di esso. I flussi discorsivi che si espandono nel tempo, competono per l’attenzione con altri progetti in corso e sono oggetto di riflessione solo dopo che sono finiti. L’interruzione di un flusso segnala che sono avvenuti dei cambiamenti nell’ambiente; essa genera una risposta emozionale ed è proprio l’emozione ad attivare un ulteriore flusso di sensemaking.
Il sensemaking come processo centrato su e da informazioni selezionate. Il sensemaking è un processo spontaneo che possiamo trovare dovunque. La difficoltà sta nell’osservare l’effettiva costruzione. Il sensemaking è un processo immediato per cui è più facile vederne i prodotti che il processo. Dovremmo prestare attenzione ai modi attraverso i quali le persone osservano, selezionano informazioni e abbelliscono ciò che hanno selezionato. Ciò che individuiamo, selezioniamo ed abbelliamo come contenuto del pensiero è solo una piccola porzione di realtà, che acquista valore in base al contesto e dalle disposizioni generali dell’individuo. Indipendentemente dalle informazioni rilevanti in un contesto, e indipendentemente dal modo in cui tali informazioni selezionate vengono arricchite, ciò che bisogna sempre tener presente è che la fiducia in queste informazioni ed il loro uso prolungato sono importanti per il sensemaking. Infatti queste informazioni collegano gli elementi dal punto di vista cognitivo e a questi presunti legami viene attribuita maggiore concretezza solo quando le persone agiscono come se fossero reali.
Il sensemaking come processo guidato dalla plausibilità più che dall’accuratezza. Il criterio dell’accuratezza è secondario in qualsiasi analisi del sensemaking per una quantità di ragioni. Innanzitutto le persone hanno bisogno di distorcere di filtrare la realtà, in base ai progetti del momento, se non vogliono essere sopraffatte dai dati. Inoltre abbiamo già visto che nei processi di sensemaking le informazioni selezionate vengono abbellite, vengono interpretate in modo da garantire un collegamento con la nostra visione del mondo. “Date informazioni molteplici, con significati molteplici per spettatori molteplici, la percezione accurata di un oggetto sembra un intenzione destinata al fallimento” (Weick, 1997). Nelle organizzazioni è preferibile essere più rapidi che accurati. La rapidità spesso riduce la necessità di accuratezza nel senso che risposte rapide riescono a far presa sugli eventi e a plasmarli prima che siano cristallizzati in un significato unico. Inoltre l’accuratezza ha maggior senso quando parliamo di percezione oggettuale, ovvero se consideriamo l’ambiente esterno come immutabile e costante, piuttosto che di percezione interpersonale, cioè relativa alle azioni che continuamente attivano un ambiente che contemporaneamente ci cambia. Weick sottolinea inoltre il fatto che è praticamente impossibile poter dire nel momento in cui percepiamo qualcosa se la percezione è accurata o no.
E se è secondaria l’accuratezza ciò che acquista importanza imprescindibile nel sensemaking è invece la plausibilità e la coerenza. Il sensemaking deve dare risposte ragionevoli, memorabili, deve incarnare l’esperienza passata e le aspettative, deve far risuonare insieme le persone, deve essere costruito retrospettivamente, ed essere usato in prospettiva, deve cogliere le sensazioni, deve permettere all’immaginazione di arricchire le bizzarrie del momento, deve essere qualcosa di divertente da costruire.
La formula “come posso sapere che cosa penso finché non vedo cosa dico?”
5.2 Il sensemaking nelle organizzazioni
Il sensemaking quotidiano ed il sensemaking organizzativo non sono identici.
Esistono delle continuità ma anche delle discontinuità. Weick afferma che il sensemaking nella vita organizzativa ha caratteristiche specifiche in quanto le organizzazioni sfidano tutto e chiedono spiegazioni per ogni cosa, inclusa la stessa razionalità. Nelle organizzazioni la socializzazione è più superficiale, più transitoria e più facilmente demolita dalla devianza.
E’ importante allora sviluppare fin dall’inizio un’idea di quali modi di concettualizzare le organizzazioni e i loro ambienti si adattino al sensemaking e ai loro prodotti.
Weick prende in considerazione l’analisi delle organizzazioni operata da Scott (in Weick, 1997), che segue un criterio basato sull’individuazione della minore o maggiore apertura all’ambiente e della connessione più stretta o più debole tra gli elementi che compongono il sistema.
Scott (in Weick,1997) definisce il concetto di organizzazione in tre modi:
1. l’organizzazione come concetto razionale, che viene definita come “le collettività orientate al perseguimento di scopi relativamente specifici e che esibiscono strutture sociali relativamente formalizzate” (Scott, in Weick, 1997);
2. l’organizzazione come sistema naturale, che viene definita come le collettività i cui partecipanti condividono un interesse comune alla sopravvivenza del sistema e che si impegnano in attività collettive, strutturate in maniera informale, per garantire questo fine.
3. l’organizzazione come sistema aperto, come coalizione di gruppo instabile, che sviluppa i suoi scopi attraverso la negoziazione ed è fortemente influenzata dall’ambiente esterno.
Secondo questa analisi le organizzazioni più interessate dai processi di sensemaking sono sicuramente quelle intese come sistemi aperti, che essendo influenzate in maniera maggiore dall’ambiente, devono far fronte all’elaborazione di un maggior numero di informazioni, molto diversificate, e, allo stesso tempo, darsi una spiegazione del perché, pur essendo poco coese, esiste qualcosa che tiene uniti gli individui che le compongono. In poche parole nei sistemi aperti l’attenzione si sposta dalla struttura ai processi.
Secondo Wiley (in Weick, 1997) esistono tre livelli di sensemaking al di sopra del livello di analisi individuale: l’intersoggettivo, durante il quale le intenzioni individuali sono sintetizzate in conversazioni nelle quali il “sé” diventa “noi”, il soggettivo generico, nel quale il sé non è proprio più presente ed è presente la struttura sociale, che rappresenta il livello nel quale Wiley pone le organizzazioni, e l’extra-soggettivo, che è un livello di realtà simbolico, come quello che si potrebbe associare alla matematica o ad un sistema economico visti come complessi culturali senza soggetto; qualcosa che può essere assimilato ad un dominio istituzionale, esterno, astratto che si situa al di fuori delle azioni individuali, ma che comunque mantiene un valore coercitivo su di essa. Secondo Weick l’organizzare si trova al vertice del movimento tra l’intersoggettivo ed il soggettivo generico. L’organizzazione è un mix di modi di vedere unici, vividi e intersoggettivi, e di modi di vedere che possono essere colti, perpetuati ed ampliati da persone che non partecipano alla costruzione intersoggettiva originale. Le persone possono sostituirsi a vicenda nelle organizzazioni, ma, quando lo fanno, le sostituzioni non sono mai totali. C’è sempre una perdita di comprensione comune.
Le organizzazioni sono sistemi di tensioni che hanno la funzione di gestire due grandi discontinuità dal punto di vista sociale: quando una condotta sociale immaginata è convertita in interazione sociale faccia a faccia in tempo reale e quando uno dei partecipanti all’interazione viene sostituito e l’interazione continua in qualche modo come in precedenza.
“Le organizzazioni, come forme intersoggettive, creano, preservano e implementano le innovazioni che nascono dal contatto ravvicinato. Come forme di soggettività generica, focalizzano e controllano le energie di quella vicinanza (...). Quindi le forme organizzative sono le operazioni di collegamento che connettono l’intersoggettivo e il soggettivo generico” (Weick, 1997). Le organizzazioni sono entità che si sviluppano e che sono portate avanti attraverso il continuo scambio di comunicazioni e di interpretazioni tra i partecipanti. La comunicazione è ciò che permette lo sviluppo di una visione condivisa, di temi di interesse comune, che alimentano un senso del “noi” collettivo. Brevemente, sono i processi comunicativi inerenti l’organizzare a creare una cultura organizzativa, che si rivela attraverso la comunicazione di vincoli legati al ruolo, agli scopi e al contesto. Quando vediamo le organizzazioni come entità che si spostano continuamente tra l’intersoggettività e la soggettività generica è possibile costruire un nucleo comune che ci permette di rappresentare lo scenario in cui ha luogo il sensemaking.
Weick individua sei caratteristiche dell’organizzare che possono costituire il punto di partenza per poter parlare di sensemaking organizzativo:
1. Un aspetto fondamentale dell’organizzare è la domanda: come si ottiene il coordinamento delle azioni nel mondo delle realtà multiple?
2. Una risposta a questa domanda si trova in una forma sociale che genera modi di vedere vividi, unici, intersoggettivi, che possono essere afferrati e amplificati da persone che non avevano partecipato alla costruzione originale.
3. C’è sempre una qualche perdita di comprensione quando l’intersoggettivo viene tradotto nel generico. La funzione delle forme organizzative è di gestire questa perdita mantenendola ridotta e permettendole di essere rinegoziata.
4. Far fronte ad una transizione significa far fronte alla tensione che spesso si produce quando le persone cercano di riconciliare l’innovazione intrinseca all’intersoggettività con il controllo intrinseco alla soggettività generica. Le forme organizzative rappresentano operazioni di collegamento che tentano questa riconciliazione su base continua.
5. La riconciliazione è ottenuta tramite cose come le routine interconnesse e i modelli abituali d’azione, entrambe le quali hanno la loro origine nell’interazione diadica.
6. E infine, le forme sociali dell’organizzazione consistono fondamentalmente in attività strutturate che si sviluppano e sono mantenute attraverso la continua attività comunicativa, nella quale i partecipanti elaborano visioni equivalenti di temi d’interesse comune.
Le organizzazioni e i processi di sensemaking sono fatti della stessa stoffa. Organizzare significa imporre ordine, neutralizzare le deviazioni, semplificare e connettere, e lo stesso vale quando le persone cercano di dare senso.
“Se in tempi di incertezza, ambiguità e sorprese raramente ciò che ha senso è anche sensato, allora tutte le pratiche e le massime che cominciano a correggere questo squilibrio dovrebbero essere benvenute ed avere un impatto positivo” (Weick,1997).
Abbiamo già trattato Weick all’interno della “deriva” cognitivista, soprattutto per quanto concerne i concetti di enactment e loose coupling. Ci interessa sottolineare ora che molto spesso inserire un autore in un filone scientifico equivale ad ingabbiarlo all’interno di un sistema di riferimento, impedendo di comprendere o di sviscerare completamente il suo contributo. Ed è probabilmente quello che può accadere se si considera Weick semplicemente un esponente del cognitivismo e non si segue l’evoluzione del suo pensiero dall’interesse per la creazione di significato a livello individuale, a una fase in cui si parla “chiaramente e coerentemente in termini di interazioni tra individui piuttosto che di singoli attori” (Weick,1997). Secondo Weick l’organizzazione è fondamentalmente il risultato di “processi conversazionali e di apprendimento reciproco dei soggetti umani” (Weick,1997).
Il linguaggio non appartiene al soggetto isolato, non è una creazione specificatamente individuale, ma è una forma continuamente plasmata e arricchita dai processi relazionali, dalla condivisione dei mondi intrapsichici.
Per Weick le organizzazioni esistono nel momento in cui gruppi di donne e di uomini si incontrano, e sulla base di una conversazione riescono ad elaborare un loro linguaggio.
Le costruzioni linguistiche nelle organizzazioni sono alla base del concetto di ambiguità.
Il concetto di ambiguità è strettamente pragmatico dal punto di vista dell’evoluzione e dell’adattamento. Esso equivale alla mediazione che avviene quando due individui, sulla base del proprio punto di vista, delle proprie capacità, sviluppano delle visioni differenti rispetto ad una situazione, eppure possono accordarsi su un sentimento di consenso reciproco senza, per questo, cambiare troppo di loro stessi, mantenendo un elevato grado di diversità. Lo spazio di ricerca che connette il passaggio dall’individuale al collettivo con la nozione di ambiguità è quello dell’esplorazione del concetto di senso e significato. Il senso ha per sua stessa natura una dimensione ambigua, in quanto il senso nasce per far fronte al caso e all’indeterminazione, alla stessa maniera della nascita del legame sociale, mentre è una via essenziale della nostra progettazione della vita e del mondo.
Il senso ha una componente istintiva e interpersonale che parte dall’individuo nel momento in cui incontra l’altro. Il soggetto attiva movimenti intrapsichici per far fronte all’indeterminatezza di una situazione cercando un orientamento verso l’altro e le cose. Questo processo è alla base della costruzione del rapporto con se stessi che si origina attraverso il rapporto con l’altro: “L’essere in relazione precede il mio essere sociale” (Weick, 1997).
Il significato ci pone di fronte allo spazio riflessivo dell’intenzionalità, ai processi intrapersonali e quindi ai vissuti collettivi della visione scambiata, dichiarata e verificata: “ la superficie oggettiva delle soggettività” (Weick, 1997). Il senso emerge in quanto siamo noi a costruirlo sulla base di come percepiamo il mondo; il significato consiste nella costruzione della struttura di segni attraverso il processo di simbolizzazione.
Il sensemaking è quel processo di coevoluzione continua tra il senso (preriflessivo) e il significato (riflessivo). Letteralmente sensemaking significa costruzione del significato tramite gli agenti attivi, l’interazione fra gli individui. Questo processo colloca gli stimoli entro una “cornice di riferimento” che serve ad indicare un punto di vista comune che guida le interpretazioni. La costruzione di significato è un ciclo ricorrente che ha un inizio, nel momento in cui gli individui formano anticipazioni e presupposizioni, inconsce e consce, che servono come previsioni per gli eventi futuri, ma che non ha una fine. Gli eventi discrepanti, o sorprese, rispetto alle previsioni, innescano il bisogno di nuove spiegazioni, di una rilettura a posteriori, attivando un nuovo processo di sensemaking in grado di elaborare interpretazioni sulle discrepanze. Il sensemaking non si occupa semplicemente di costruire cornici nelle quali collocare gli stimoli, ma svolge anche altre attività tese all’esplorazione dell’ambiente, all’interpretazione e alle “risposte associate”. Altri autori (Thomas, Clark, Gioia, in Weick, 1997) infatti ci descrivono il sensemaking come un’interazione reciproca tra la ricerca di informazioni, l’attribuzione di significati e l’azione.
Ne risulta che il sensemaking si sviluppa sia sull’attività individuale che su quella sociale e che queste attività sono comunque imprescindibili.
Il sensemaking è un’attività che riguarda i modi in cui le persone generano quello che interpretano. La creazione e l’interpretazione sono intrecciate. Il concetto di sensemaking sottolinea l’azione, l’attività e l’ideazione che sottostanno alle tracce che vengono interpretate e poi reintepretate.
In questo senso il sensemaking è diverso dall’interpretazione. Il sensemaking riguarda un’attività o un processo, mentre l’interpretazione descrive soprattutto un effetto. L’interpretazione implica che qualcosa esista là, un testo nel mondo, che attende di essere scoperto o avvicinato. Il sensemaking riguarda più l’invenzione che la scoperta. Intraprendere un processo di sensemaking significa costruire, filtrare, incorniciare, e trasformare la soggettività in qualcosa di più tangibile.
“Il senso è comune, comunicante, comunicato, in comune per definizione. Supponendo che la mia esistenza abbia un senso, esso è ciò che la fa comunicare e ciò che la comunica a qualcos’altro che non sono io. Il senso costituisce il mio rapporto a me in quanto in rapporto ad altro. Un essere senza altro (o senza alterità) non avrebbe senso” (Nancy, in Weick, 1997).
5.1 Le sette proprietà del sensemaking
Il sensemaking è un processo:
1. fondato sulla costruzione dell’identità;
2. retrospettivo;
3. istitutivo (enactive) di ambienti sensati;
4. sociale;
5. continuo;
6. generato su (e da) informazioni selezionate;
7. guidato dalla plausibilità più che dall’accuratezza.
Queste sette caratteristiche servono da linee guida nell’indagine sul sensemaking, nel senso che suggeriscono che cosa è il sensemaking, come funziona e dove può fallire.
Il sensemaking come processo fondato sulla costruzione dell’identità. Il sensemaking inizia quando qualcuno dà senso. La frase “Come posso (Io) sapere che cosa (Io) penso finché (Io) non vedo cosa (Io) dico?” è incentrata su una persona che sta facendo sensemaking (sensemaker). In realtà il sensemaker non agisce mai da solo come creatore di senso. Quindi ogni creazione di senso, che avviene attraverso gli altri, è anche una creazione di sé, della propria identità.
Il sensemaking come processo retrospettivo. L’idea di un sensemaking retrospettivo deriva dall’analisi di Schutz (in Weick, 1997) del “vissuto significativo”. La parola chiave di questa espressione è il vissuto che rimanda al concetto di passato per cogliere il fatto che le persone possono sapere che cosa stanno facendo solo dopo averlo fatto. L’uomo ha infatti scoperto che il mondo da lui percepito è in realtà un mondo passato. “Qualsiasi oggetto esterno al corpo, per quanto vicino, è passato di almeno un infinitesimo di secondo nel momento in cui lo percepiamo” (Hartshorne in Weick,1997). Per accorgerci della realtà è necessario uscire dall’irrazionalità del nostro vissuto, estraniarsi, per poi ricomporlo, attraverso la riflessione, in maniera razionale.
“L’atto del rivolgimento infatti presuppone un vissuto divenuto, trascorso, già compiuto, in breve un vissuto passato” (Schutz, in Weick, 1997).
Weick paragona l’atto retrospettivo all’irradiazione di un cono di luce su una porzione di realtà, che si diffonde all’indietro, partendo dal presente e portando con sé sentimenti, progetti, che influenzeranno la qualità e la quantità del vissuto analizzato.
Tutto quello che è in atto ora, al momento del presente, determinerà il significato di tutto quello che è appena avvenuto.
Il sensemaking come processo istitutivo di ambienti sensati. In questa analisi Weick connette l’attività di sensemaking con il concetto di enactment, ovvero la produzione da parte degli individui dell’ambiente che si trovano ad affrontare.
Il mondo socialmente creato diventa un mondo che vincola azioni ed orientamenti. Non esistono né ambienti attivi di fronte a gente passiva, né ambienti passivi messi in movimento da gente attiva. Non esiste un ambiente staccato dall’individuo che genera stimoli, ma la gente riceve stimoli come risultato delle proprie attività. Gli individui istituiscono l’ambiente che istituisce la loro identità.
Il mondo socialmente creato diventa un mondo che vincola azioni e orientamenti. E’ il trascorrere del tempo che ci fa percepire il mondo come una realtà oggettiva definita dall’esterno nella quale i soggetti giocano ruoli preordinati. E’ questa istituzionalizzazione delle cose sociali come modi di fare le cose, e la trasmissione di tali prodotti, che collegano le idee sul sensemaking a quelle della teoria istituzionale. Il sensemaking è la materia prima dell’istituzionalizzazione.
Il sensemaking come processo sociale. “Il pensiero umano e il funzionamento sociale (..) sono aspetti essenziali l’uno dell’altro” (Resnick in Weick, 1997). La realtà sociale è un reticolo di significati condivisi intersoggettivamente che vengono mantenuti attraverso lo sviluppo e l’uso di un linguaggio comune che permette l’interazione sociale quotidiana. Il sensemaking oltre ad essere un processo cognitivo è soprattutto un processo sociale, dove le interazioni tra gli individui modellano costantemente le interpretazioni e l’interpretare. Un individuo crea pensieri originali ogni volta che interagisce con gli altri, e poi li comunica alla comunità più ampia. Se queste idee sono attuabili, vengono generalizzate dalla comunità ed entrano a far parte della cultura. Il sensemaking non è mai portato avanti da un individuo in solitudine poiché quello che si fa interiormente è comunque condizionato dalla presenza degli altri. Anche un monologo presume la presenza di un pubblico e cambia al cambiare del pubblico stesso.
Il sensemaking come processo continuo. Il sensemaking non ha mai un inizio. Il motivo è che la pura durata non si ferma mai. Le persone stanno sempre nel mezzo delle cose, che diventano cose solo quando quelle stesse persone esaminano il passato da un punto al di là di esso. I flussi discorsivi che si espandono nel tempo, competono per l’attenzione con altri progetti in corso e sono oggetto di riflessione solo dopo che sono finiti. L’interruzione di un flusso segnala che sono avvenuti dei cambiamenti nell’ambiente; essa genera una risposta emozionale ed è proprio l’emozione ad attivare un ulteriore flusso di sensemaking.
Il sensemaking come processo centrato su e da informazioni selezionate. Il sensemaking è un processo spontaneo che possiamo trovare dovunque. La difficoltà sta nell’osservare l’effettiva costruzione. Il sensemaking è un processo immediato per cui è più facile vederne i prodotti che il processo. Dovremmo prestare attenzione ai modi attraverso i quali le persone osservano, selezionano informazioni e abbelliscono ciò che hanno selezionato. Ciò che individuiamo, selezioniamo ed abbelliamo come contenuto del pensiero è solo una piccola porzione di realtà, che acquista valore in base al contesto e dalle disposizioni generali dell’individuo. Indipendentemente dalle informazioni rilevanti in un contesto, e indipendentemente dal modo in cui tali informazioni selezionate vengono arricchite, ciò che bisogna sempre tener presente è che la fiducia in queste informazioni ed il loro uso prolungato sono importanti per il sensemaking. Infatti queste informazioni collegano gli elementi dal punto di vista cognitivo e a questi presunti legami viene attribuita maggiore concretezza solo quando le persone agiscono come se fossero reali.
Il sensemaking come processo guidato dalla plausibilità più che dall’accuratezza. Il criterio dell’accuratezza è secondario in qualsiasi analisi del sensemaking per una quantità di ragioni. Innanzitutto le persone hanno bisogno di distorcere di filtrare la realtà, in base ai progetti del momento, se non vogliono essere sopraffatte dai dati. Inoltre abbiamo già visto che nei processi di sensemaking le informazioni selezionate vengono abbellite, vengono interpretate in modo da garantire un collegamento con la nostra visione del mondo. “Date informazioni molteplici, con significati molteplici per spettatori molteplici, la percezione accurata di un oggetto sembra un intenzione destinata al fallimento” (Weick, 1997). Nelle organizzazioni è preferibile essere più rapidi che accurati. La rapidità spesso riduce la necessità di accuratezza nel senso che risposte rapide riescono a far presa sugli eventi e a plasmarli prima che siano cristallizzati in un significato unico. Inoltre l’accuratezza ha maggior senso quando parliamo di percezione oggettuale, ovvero se consideriamo l’ambiente esterno come immutabile e costante, piuttosto che di percezione interpersonale, cioè relativa alle azioni che continuamente attivano un ambiente che contemporaneamente ci cambia. Weick sottolinea inoltre il fatto che è praticamente impossibile poter dire nel momento in cui percepiamo qualcosa se la percezione è accurata o no.
E se è secondaria l’accuratezza ciò che acquista importanza imprescindibile nel sensemaking è invece la plausibilità e la coerenza. Il sensemaking deve dare risposte ragionevoli, memorabili, deve incarnare l’esperienza passata e le aspettative, deve far risuonare insieme le persone, deve essere costruito retrospettivamente, ed essere usato in prospettiva, deve cogliere le sensazioni, deve permettere all’immaginazione di arricchire le bizzarrie del momento, deve essere qualcosa di divertente da costruire.
La formula “come posso sapere che cosa penso finché non vedo cosa dico?”
5.2 Il sensemaking nelle organizzazioni
Il sensemaking quotidiano ed il sensemaking organizzativo non sono identici.
Esistono delle continuità ma anche delle discontinuità. Weick afferma che il sensemaking nella vita organizzativa ha caratteristiche specifiche in quanto le organizzazioni sfidano tutto e chiedono spiegazioni per ogni cosa, inclusa la stessa razionalità. Nelle organizzazioni la socializzazione è più superficiale, più transitoria e più facilmente demolita dalla devianza.
E’ importante allora sviluppare fin dall’inizio un’idea di quali modi di concettualizzare le organizzazioni e i loro ambienti si adattino al sensemaking e ai loro prodotti.
Weick prende in considerazione l’analisi delle organizzazioni operata da Scott (in Weick, 1997), che segue un criterio basato sull’individuazione della minore o maggiore apertura all’ambiente e della connessione più stretta o più debole tra gli elementi che compongono il sistema.
Scott (in Weick,1997) definisce il concetto di organizzazione in tre modi:
1. l’organizzazione come concetto razionale, che viene definita come “le collettività orientate al perseguimento di scopi relativamente specifici e che esibiscono strutture sociali relativamente formalizzate” (Scott, in Weick, 1997);
2. l’organizzazione come sistema naturale, che viene definita come le collettività i cui partecipanti condividono un interesse comune alla sopravvivenza del sistema e che si impegnano in attività collettive, strutturate in maniera informale, per garantire questo fine.
3. l’organizzazione come sistema aperto, come coalizione di gruppo instabile, che sviluppa i suoi scopi attraverso la negoziazione ed è fortemente influenzata dall’ambiente esterno.
Secondo questa analisi le organizzazioni più interessate dai processi di sensemaking sono sicuramente quelle intese come sistemi aperti, che essendo influenzate in maniera maggiore dall’ambiente, devono far fronte all’elaborazione di un maggior numero di informazioni, molto diversificate, e, allo stesso tempo, darsi una spiegazione del perché, pur essendo poco coese, esiste qualcosa che tiene uniti gli individui che le compongono. In poche parole nei sistemi aperti l’attenzione si sposta dalla struttura ai processi.
Secondo Wiley (in Weick, 1997) esistono tre livelli di sensemaking al di sopra del livello di analisi individuale: l’intersoggettivo, durante il quale le intenzioni individuali sono sintetizzate in conversazioni nelle quali il “sé” diventa “noi”, il soggettivo generico, nel quale il sé non è proprio più presente ed è presente la struttura sociale, che rappresenta il livello nel quale Wiley pone le organizzazioni, e l’extra-soggettivo, che è un livello di realtà simbolico, come quello che si potrebbe associare alla matematica o ad un sistema economico visti come complessi culturali senza soggetto; qualcosa che può essere assimilato ad un dominio istituzionale, esterno, astratto che si situa al di fuori delle azioni individuali, ma che comunque mantiene un valore coercitivo su di essa. Secondo Weick l’organizzare si trova al vertice del movimento tra l’intersoggettivo ed il soggettivo generico. L’organizzazione è un mix di modi di vedere unici, vividi e intersoggettivi, e di modi di vedere che possono essere colti, perpetuati ed ampliati da persone che non partecipano alla costruzione intersoggettiva originale. Le persone possono sostituirsi a vicenda nelle organizzazioni, ma, quando lo fanno, le sostituzioni non sono mai totali. C’è sempre una perdita di comprensione comune.
Le organizzazioni sono sistemi di tensioni che hanno la funzione di gestire due grandi discontinuità dal punto di vista sociale: quando una condotta sociale immaginata è convertita in interazione sociale faccia a faccia in tempo reale e quando uno dei partecipanti all’interazione viene sostituito e l’interazione continua in qualche modo come in precedenza.
“Le organizzazioni, come forme intersoggettive, creano, preservano e implementano le innovazioni che nascono dal contatto ravvicinato. Come forme di soggettività generica, focalizzano e controllano le energie di quella vicinanza (...). Quindi le forme organizzative sono le operazioni di collegamento che connettono l’intersoggettivo e il soggettivo generico” (Weick, 1997). Le organizzazioni sono entità che si sviluppano e che sono portate avanti attraverso il continuo scambio di comunicazioni e di interpretazioni tra i partecipanti. La comunicazione è ciò che permette lo sviluppo di una visione condivisa, di temi di interesse comune, che alimentano un senso del “noi” collettivo. Brevemente, sono i processi comunicativi inerenti l’organizzare a creare una cultura organizzativa, che si rivela attraverso la comunicazione di vincoli legati al ruolo, agli scopi e al contesto. Quando vediamo le organizzazioni come entità che si spostano continuamente tra l’intersoggettività e la soggettività generica è possibile costruire un nucleo comune che ci permette di rappresentare lo scenario in cui ha luogo il sensemaking.
Weick individua sei caratteristiche dell’organizzare che possono costituire il punto di partenza per poter parlare di sensemaking organizzativo:
1. Un aspetto fondamentale dell’organizzare è la domanda: come si ottiene il coordinamento delle azioni nel mondo delle realtà multiple?
2. Una risposta a questa domanda si trova in una forma sociale che genera modi di vedere vividi, unici, intersoggettivi, che possono essere afferrati e amplificati da persone che non avevano partecipato alla costruzione originale.
3. C’è sempre una qualche perdita di comprensione quando l’intersoggettivo viene tradotto nel generico. La funzione delle forme organizzative è di gestire questa perdita mantenendola ridotta e permettendole di essere rinegoziata.
4. Far fronte ad una transizione significa far fronte alla tensione che spesso si produce quando le persone cercano di riconciliare l’innovazione intrinseca all’intersoggettività con il controllo intrinseco alla soggettività generica. Le forme organizzative rappresentano operazioni di collegamento che tentano questa riconciliazione su base continua.
5. La riconciliazione è ottenuta tramite cose come le routine interconnesse e i modelli abituali d’azione, entrambe le quali hanno la loro origine nell’interazione diadica.
6. E infine, le forme sociali dell’organizzazione consistono fondamentalmente in attività strutturate che si sviluppano e sono mantenute attraverso la continua attività comunicativa, nella quale i partecipanti elaborano visioni equivalenti di temi d’interesse comune.
Le organizzazioni e i processi di sensemaking sono fatti della stessa stoffa. Organizzare significa imporre ordine, neutralizzare le deviazioni, semplificare e connettere, e lo stesso vale quando le persone cercano di dare senso.
“Se in tempi di incertezza, ambiguità e sorprese raramente ciò che ha senso è anche sensato, allora tutte le pratiche e le massime che cominciano a correggere questo squilibrio dovrebbero essere benvenute ed avere un impatto positivo” (Weick,1997).
Karl Weick: enactment e loose coupling
Dal senso al significato Coord. Giuseppina Miccoli, del_senso.doc
L’organizzazione viene definita da Weick: “come una grammatica convalidata consensualmente per la riduzione dell’ambiguità attraverso comportamenti interdipendenti dotati di senso” (Weick, 1993). E come una grammatica è la struttura di una lingua, la quale consente agli esseri umani di comunicare, di dar senso condiviso alle cose e alle azioni, allo stesso modo deve essere considerata l’azione dell’organizzazione. Noi siamo calati in mondo ambiguo ed incomprensibile e solo sviluppando un linguaggio comune, di atti, procedure, riti a cui diamo un significato univoco, possiamo dar vita ad una serie di azioni interdipendenti che generano risultati sensati. L’organizzazione serve a ridurre ambiguità ed equivoci. Essa è un’invenzione della gente che si sovrappone ai flussi d’esperienza ed impone un ordine momentaneo a questi flussi. Questo modo d’intendere l’organizzazione si basa sul presupposto cognitivista, secondo cui tutto ciò che siamo portati abitualmente a pensare come una realtà oggettiva esterna a noi, quale strutture, norme e gerarchie, non esiste se non all’interno dell’esperienza dei soggetti che la esperiscono.
Le persone cercano di organizzare, “di dar senso” al caos che le circonda arrivando così a costruire delle mappe causali. Quindi rompere un ordine, estrarre dei temi, collegare degli eventi, tutto ciò vuol dire risistemare la realtà che le persone hanno di fronte.
Queste attribuzioni di significato però differiscono a seconda delle persone; se un individuo spezza il caos di modo che si possano creare altre forme di ordine, allora è ovvio che quello che alla fine viene esaminato è la creazione dell’individuo stesso.
All’interno di un ambiente, se tutti vedono ed evitano le stesse cose e se tutti sembrano concordare su qualcosa, allora questo qualcosa deve esistere ed essere vero. Per modificare il loro ambiente le persone devono modificare dunque se stesse e le loro azioni, non qualcos’altro.
Tutto va a sottolineare l’origine soggettiva della realtà organizzativa. A tal proposito Neisser (Neisser in Weick, 1993) descrive l’enactment come “un processo di focalizzazione che si mette in atto nel momento della percezione”. Neisser asserisce che nel momento della percezione utilizziamo degli schemi che aiutano l’interpretazione. Uno schema è un’organizzazione abbreviata che serve come struttura di riferimento iniziale per l’azione e la percezione, limita la visione e, perciò, serve a mettere a fuoco parti dell’esperienza. Gli schemi sono descritti da Neisser come ricercatori d’informazioni, che accettano informazioni e che dirigono l’azione: “lo schema accetta le informazioni quando queste sono disponibili a livello sensoriale e ne viene modificato; dirige il movimento e l’attività di esplorazione che rende disponibili maggiori informazioni dalle quali viene ulteriormente modificato” (Neisser in Weick, 1993).
Esistono numerosi esempi di schemi dell’organizzazione, mappe cognitive che i membri desumono dalla loro esperienza organizzativa.
Possiamo affermare che gli oggetti raccolti nello schema consistono in comunicazioni, significati, immagini, miti e interpretazioni, che offrono tutti ampio spazio alla definizione e all’autovalidazione e anche quando le persone costruiscono nuovamente uno schema, ogni volta che ne applicano uno, deve pur sempre esistere qualcosa da cui iniziare. Ed è quel qualcosa, quell’ipotesi, quella parte recuperata dal passato che può venir elaborata alquanto rapidamente in uno schema che è come il precedente e che ha un effetto di controllo sulla percezione della gente.
L’enactment potrebbe essere ben rappresentato dal termine “efferente”, come un pensare in circolo nel quale azione, percezione ed attribuzione di significato esistono in una relazione circolare, simile ad una profezia che si autoavvera; “una profezia che si autoavvera implica un comportamento che determina negli altri la reazione rispetto a cui quel comportamento costituirebbe una reazione appropriata. Ad esempio, una persona che agisce in base alla premessa “nessuno mi ama”, si comporterà in modo diffidente, freddo, difensivo o aggressivo a cui gli altri reagiranno probabilmente senza simpatia, confermando così la sua premessa originaria. Ciò che è tipico di questa sequenza e che ne fa un problema di rilievo è che l’individuo interessato ha di sé un’immagine che è unicamente quella di una persona che reagisce, ma non che provoca quegli atteggiamenti” (Watzlawick, Beavin e Jackson in Weick, 1993).
Un fenomeno simile è stato descritto dal critico musicale Leonard Meyer come la “supposizione di logica”: “la supposizione secondo cui nell’arte nulla avviene senza ragione e che una qualsiasi causa data è sufficiente e necessaria per ciò che ha luogo è una condizione fondamentale per l’esperienza dell’arte (...) Senza questa convinzione di base l’ascoltatore non avrebbe alcuna ragione di sospendere il giudizio, rivedere le opinioni e cercare delle relazioni; il diverso, il meno probabile e l’ambiguo non avrebbero significato. Non ci sarebbe progressione, solo cambiamento. Se non credesse nella finalizzazione e nella razionalità dell’arte, l’ascoltatore abbandonerebbe i suoi sforzi per comprendere, per far riconciliare ciò che devia con ciò che esisteva prima o per cercarne la ragione d’essere in ciò che deve ancora venire” (Meyer in Weick, 1993).
La differenza con la profezia che si autoavvera è che questa è esplicita, ha un contenuto specifico, mentre la supposizione di logica è più generale dice che vi è un ordine di qualche tipo e che dipende dall’ascoltatore creare quell’ordine.
Le persone cercano di ridurre la complessità del mondo mettendo in atto una “supposizione di logica”, essi cioè suppongono che la loro visione del mondo e le azioni che a questo rivolgono siano valide; suppongono che altre persone nell’organizzazione vedranno e faranno le stesse cose ed è vero che si verifichino queste ipotesi.
Avendo supposto che il mondo è ordinato e sensato, questi soggetti costruiscono l’ordine che pensano di aver scoperto, sottovalutando di aver attivato loro stessi quell’ordine. Il concetto di ambiente costruito non è sinonimo del concetto di ambiente percepito, anche se alcune citazioni suggeriscono che è così la realtà viene percepita in modo selettivo, risistemata in modo cognitivo e negoziata in modo interpersonale.
“La realtà che ci circonda viene dunque costruita ma questa costruzione non comporta solo una negoziazione fra le persone sulla natura dell’ambiente esterno; concetti quale l’ambiente negoziato e la costruzione sociale della realtà hanno in comune l’ipotesi che la conoscenza venga acquisita con il flusso che va da un oggetto a un soggetto. L’oggetto viene percepito, viene lavorato dal punto di vista cognitivo, viene classificato in vari modi e viene connesso a svariati eventi remoti o distanti, ma la comprensione si muove anche nella direzione opposta l’effetto potenziale del soggetto sull’oggetto indica che la conoscenza è un’attività in cui il soggetto in parte interagisce con l’oggetto e lo costituisce” (Gruber e Vonèchein, in Weick, 1993).
Vi è un’influenza reciproca fra soggetto e oggetto, non un’influenza unilineare come quella implicita nell’idea secondo cui uno stimolo innesca una risposta. Nel modello dell’organizzare questa influenza reciproca viene colta dall’influenza a doppio senso fra l’enactment e il cambiamento ecologico. L’ambiente costruito è dunque una traduzione sensata di eventi precedentemente archiviati che formano delle mappe causali, le quali interagiscono (modificano e sono a loro volta modificate) con le situazioni in corso.
Altro concetto importante è quello di connessione debole (loose coupling), che Weick propone per l’analisi delle organizzazioni scolastiche, ma che in seguito è stato utilizzato anche in altri tipi di organizzazioni.
“Immaginate di essere arbitro, allenatore, giocatore o spettatore di una singolare partita di calcio: il campo è a forma circolare, le porte sono più di due e sono sparse disordinatamente lungo i bordi del campo; i partecipanti possono entrare e uscire dal campo a piacere: possono dire “ho fatto goal”, per quanto vogliono, in ogni momento e per quante volte vogliono; tutta la partita si svolge su un terreno inclinato e viene giocata come se avesse senso (...) Ora, se sostituiamo nell’esempio l’arbitro con il preside, gli allenatori con gli insegnanti, i giocatori con gli studenti, gli spettatori con i genitori e il calcio con l’attività scolastica, si ottiene una descrizione altrettanto singolare delle organizzazioni scolastiche. Il fascino di questa descrizione sta nel fatto che essa coglie all’interno delle organizzazioni scolastiche un nucleo di realtà diverse da quelle che possono essere evidenziate nelle stesse organizzazioni dalle posizioni classiche della teoria burocratica” (Zan in Bonazzi, 1995). In sostanza Weick ci invita a leggere in modo cognitivistico ciò che avviene all’interno di una scuola, le varie componenti agiscono cercando innanzitutto di conferire senso alle proprie azioni, dentro uno specifico ambiente di esperienza e questo ambiente è debolmente connesso con altri ambienti. Il nucleo insegnante-classe-genitori-programma di studi definisce un sub-sistema a sé, con una sua logica ed un suo significato, perché ha solo pochi elementi in comune con l’altro sub-sistema scolastico formato dal nucleo direttore-vicedirettore-ispettore. Ciò non vuol dire che l’organizzazione scolastica si disintegra a causa delle spinte centrifughe. Essa può continuare ad esistere e a funzionare proprio perché le sue connessioni interne sono lasche, sufficienti a garantire un coordinamento minimo su determinate questioni, ma non così pervasive da serrare tutto con tutto. Le connessioni deboli garantiscono la persistenza temporale delle organizzazioni, si possono modificare delle parti senza che l’intero sistema sia coinvolto nel cambiamento; si possono inventare soluzioni particolari nei sub-sistemi, non adattabili all’intero sistema. Le connessioni deboli possono essere anche negate dalle autorità ufficiali, possono non essere istituzionalizzate, ma ciò che conta è il loro persistere di fatto nell’esperienza dei soggetti.
La metafora della partita di calcio indica che in sé quella realtà non ha significato, se non nel conferimento di senso che i vari partecipanti attribuiscono a quella situazione.
L’organizzazione non si arresta perché le connessioni deboli garantiscono quel coordinamento minimo necessario.
Weick sostiene che le varie parti possono interagire tra loro con legami a forza variabile che dipendono dal senso conferito alla realtà da parte dei soggetti e quanto più i legami sono deboli, tanto più i soggetti sono portati a impegnarsi in uno sforzo di costruzione della realtà sociale che dà luogo a numerosi miti, significati condivisi, necessari per rendere maggiormente percettibile il mondo nel quale sono immersi.
L’organizzazione viene definita da Weick: “come una grammatica convalidata consensualmente per la riduzione dell’ambiguità attraverso comportamenti interdipendenti dotati di senso” (Weick, 1993). E come una grammatica è la struttura di una lingua, la quale consente agli esseri umani di comunicare, di dar senso condiviso alle cose e alle azioni, allo stesso modo deve essere considerata l’azione dell’organizzazione. Noi siamo calati in mondo ambiguo ed incomprensibile e solo sviluppando un linguaggio comune, di atti, procedure, riti a cui diamo un significato univoco, possiamo dar vita ad una serie di azioni interdipendenti che generano risultati sensati. L’organizzazione serve a ridurre ambiguità ed equivoci. Essa è un’invenzione della gente che si sovrappone ai flussi d’esperienza ed impone un ordine momentaneo a questi flussi. Questo modo d’intendere l’organizzazione si basa sul presupposto cognitivista, secondo cui tutto ciò che siamo portati abitualmente a pensare come una realtà oggettiva esterna a noi, quale strutture, norme e gerarchie, non esiste se non all’interno dell’esperienza dei soggetti che la esperiscono.
Le persone cercano di organizzare, “di dar senso” al caos che le circonda arrivando così a costruire delle mappe causali. Quindi rompere un ordine, estrarre dei temi, collegare degli eventi, tutto ciò vuol dire risistemare la realtà che le persone hanno di fronte.
Queste attribuzioni di significato però differiscono a seconda delle persone; se un individuo spezza il caos di modo che si possano creare altre forme di ordine, allora è ovvio che quello che alla fine viene esaminato è la creazione dell’individuo stesso.
All’interno di un ambiente, se tutti vedono ed evitano le stesse cose e se tutti sembrano concordare su qualcosa, allora questo qualcosa deve esistere ed essere vero. Per modificare il loro ambiente le persone devono modificare dunque se stesse e le loro azioni, non qualcos’altro.
Tutto va a sottolineare l’origine soggettiva della realtà organizzativa. A tal proposito Neisser (Neisser in Weick, 1993) descrive l’enactment come “un processo di focalizzazione che si mette in atto nel momento della percezione”. Neisser asserisce che nel momento della percezione utilizziamo degli schemi che aiutano l’interpretazione. Uno schema è un’organizzazione abbreviata che serve come struttura di riferimento iniziale per l’azione e la percezione, limita la visione e, perciò, serve a mettere a fuoco parti dell’esperienza. Gli schemi sono descritti da Neisser come ricercatori d’informazioni, che accettano informazioni e che dirigono l’azione: “lo schema accetta le informazioni quando queste sono disponibili a livello sensoriale e ne viene modificato; dirige il movimento e l’attività di esplorazione che rende disponibili maggiori informazioni dalle quali viene ulteriormente modificato” (Neisser in Weick, 1993).
Esistono numerosi esempi di schemi dell’organizzazione, mappe cognitive che i membri desumono dalla loro esperienza organizzativa.
Possiamo affermare che gli oggetti raccolti nello schema consistono in comunicazioni, significati, immagini, miti e interpretazioni, che offrono tutti ampio spazio alla definizione e all’autovalidazione e anche quando le persone costruiscono nuovamente uno schema, ogni volta che ne applicano uno, deve pur sempre esistere qualcosa da cui iniziare. Ed è quel qualcosa, quell’ipotesi, quella parte recuperata dal passato che può venir elaborata alquanto rapidamente in uno schema che è come il precedente e che ha un effetto di controllo sulla percezione della gente.
L’enactment potrebbe essere ben rappresentato dal termine “efferente”, come un pensare in circolo nel quale azione, percezione ed attribuzione di significato esistono in una relazione circolare, simile ad una profezia che si autoavvera; “una profezia che si autoavvera implica un comportamento che determina negli altri la reazione rispetto a cui quel comportamento costituirebbe una reazione appropriata. Ad esempio, una persona che agisce in base alla premessa “nessuno mi ama”, si comporterà in modo diffidente, freddo, difensivo o aggressivo a cui gli altri reagiranno probabilmente senza simpatia, confermando così la sua premessa originaria. Ciò che è tipico di questa sequenza e che ne fa un problema di rilievo è che l’individuo interessato ha di sé un’immagine che è unicamente quella di una persona che reagisce, ma non che provoca quegli atteggiamenti” (Watzlawick, Beavin e Jackson in Weick, 1993).
Un fenomeno simile è stato descritto dal critico musicale Leonard Meyer come la “supposizione di logica”: “la supposizione secondo cui nell’arte nulla avviene senza ragione e che una qualsiasi causa data è sufficiente e necessaria per ciò che ha luogo è una condizione fondamentale per l’esperienza dell’arte (...) Senza questa convinzione di base l’ascoltatore non avrebbe alcuna ragione di sospendere il giudizio, rivedere le opinioni e cercare delle relazioni; il diverso, il meno probabile e l’ambiguo non avrebbero significato. Non ci sarebbe progressione, solo cambiamento. Se non credesse nella finalizzazione e nella razionalità dell’arte, l’ascoltatore abbandonerebbe i suoi sforzi per comprendere, per far riconciliare ciò che devia con ciò che esisteva prima o per cercarne la ragione d’essere in ciò che deve ancora venire” (Meyer in Weick, 1993).
La differenza con la profezia che si autoavvera è che questa è esplicita, ha un contenuto specifico, mentre la supposizione di logica è più generale dice che vi è un ordine di qualche tipo e che dipende dall’ascoltatore creare quell’ordine.
Le persone cercano di ridurre la complessità del mondo mettendo in atto una “supposizione di logica”, essi cioè suppongono che la loro visione del mondo e le azioni che a questo rivolgono siano valide; suppongono che altre persone nell’organizzazione vedranno e faranno le stesse cose ed è vero che si verifichino queste ipotesi.
Avendo supposto che il mondo è ordinato e sensato, questi soggetti costruiscono l’ordine che pensano di aver scoperto, sottovalutando di aver attivato loro stessi quell’ordine. Il concetto di ambiente costruito non è sinonimo del concetto di ambiente percepito, anche se alcune citazioni suggeriscono che è così la realtà viene percepita in modo selettivo, risistemata in modo cognitivo e negoziata in modo interpersonale.
“La realtà che ci circonda viene dunque costruita ma questa costruzione non comporta solo una negoziazione fra le persone sulla natura dell’ambiente esterno; concetti quale l’ambiente negoziato e la costruzione sociale della realtà hanno in comune l’ipotesi che la conoscenza venga acquisita con il flusso che va da un oggetto a un soggetto. L’oggetto viene percepito, viene lavorato dal punto di vista cognitivo, viene classificato in vari modi e viene connesso a svariati eventi remoti o distanti, ma la comprensione si muove anche nella direzione opposta l’effetto potenziale del soggetto sull’oggetto indica che la conoscenza è un’attività in cui il soggetto in parte interagisce con l’oggetto e lo costituisce” (Gruber e Vonèchein, in Weick, 1993).
Vi è un’influenza reciproca fra soggetto e oggetto, non un’influenza unilineare come quella implicita nell’idea secondo cui uno stimolo innesca una risposta. Nel modello dell’organizzare questa influenza reciproca viene colta dall’influenza a doppio senso fra l’enactment e il cambiamento ecologico. L’ambiente costruito è dunque una traduzione sensata di eventi precedentemente archiviati che formano delle mappe causali, le quali interagiscono (modificano e sono a loro volta modificate) con le situazioni in corso.
Altro concetto importante è quello di connessione debole (loose coupling), che Weick propone per l’analisi delle organizzazioni scolastiche, ma che in seguito è stato utilizzato anche in altri tipi di organizzazioni.
“Immaginate di essere arbitro, allenatore, giocatore o spettatore di una singolare partita di calcio: il campo è a forma circolare, le porte sono più di due e sono sparse disordinatamente lungo i bordi del campo; i partecipanti possono entrare e uscire dal campo a piacere: possono dire “ho fatto goal”, per quanto vogliono, in ogni momento e per quante volte vogliono; tutta la partita si svolge su un terreno inclinato e viene giocata come se avesse senso (...) Ora, se sostituiamo nell’esempio l’arbitro con il preside, gli allenatori con gli insegnanti, i giocatori con gli studenti, gli spettatori con i genitori e il calcio con l’attività scolastica, si ottiene una descrizione altrettanto singolare delle organizzazioni scolastiche. Il fascino di questa descrizione sta nel fatto che essa coglie all’interno delle organizzazioni scolastiche un nucleo di realtà diverse da quelle che possono essere evidenziate nelle stesse organizzazioni dalle posizioni classiche della teoria burocratica” (Zan in Bonazzi, 1995). In sostanza Weick ci invita a leggere in modo cognitivistico ciò che avviene all’interno di una scuola, le varie componenti agiscono cercando innanzitutto di conferire senso alle proprie azioni, dentro uno specifico ambiente di esperienza e questo ambiente è debolmente connesso con altri ambienti. Il nucleo insegnante-classe-genitori-programma di studi definisce un sub-sistema a sé, con una sua logica ed un suo significato, perché ha solo pochi elementi in comune con l’altro sub-sistema scolastico formato dal nucleo direttore-vicedirettore-ispettore. Ciò non vuol dire che l’organizzazione scolastica si disintegra a causa delle spinte centrifughe. Essa può continuare ad esistere e a funzionare proprio perché le sue connessioni interne sono lasche, sufficienti a garantire un coordinamento minimo su determinate questioni, ma non così pervasive da serrare tutto con tutto. Le connessioni deboli garantiscono la persistenza temporale delle organizzazioni, si possono modificare delle parti senza che l’intero sistema sia coinvolto nel cambiamento; si possono inventare soluzioni particolari nei sub-sistemi, non adattabili all’intero sistema. Le connessioni deboli possono essere anche negate dalle autorità ufficiali, possono non essere istituzionalizzate, ma ciò che conta è il loro persistere di fatto nell’esperienza dei soggetti.
La metafora della partita di calcio indica che in sé quella realtà non ha significato, se non nel conferimento di senso che i vari partecipanti attribuiscono a quella situazione.
L’organizzazione non si arresta perché le connessioni deboli garantiscono quel coordinamento minimo necessario.
Weick sostiene che le varie parti possono interagire tra loro con legami a forza variabile che dipendono dal senso conferito alla realtà da parte dei soggetti e quanto più i legami sono deboli, tanto più i soggetti sono portati a impegnarsi in uno sforzo di costruzione della realtà sociale che dà luogo a numerosi miti, significati condivisi, necessari per rendere maggiormente percettibile il mondo nel quale sono immersi.
La prospettiva delle reti neurali
Dal senso al significato Coord. Giuseppina Miccoli, del_senso.doc
Negli ultimi anni comunque la scienza cognitiva e lo studio sull’intelligenza artificiale si stanno muovendo verso un approccio che tenta di superare i dubbi a livello epistemologico, filosofico, biologico ed empirico insito nell’analogia organismo-computer. Secondo Clark (Clark, 1994) i modelli di intelligenza artificiale che hanno dominato, per tutti gli anni settanta ed ottanta, hanno esaminato la natura del pensiero umano dall’interno dell’esperienza umana normale ed hanno riposto troppa fiducia nella visione che la mente stessa ha della mente.
Secondo questa prospettiva, che Clark definisce “dell’occhio della mente”, “...le entità che hanno trovato il modo di giocare un ruolo in questi modelli sarebbero una traduzione abbastanza diretta in appropriati codici macchina delle nostre comuni espressioni di credenze e desideri” (Clark, 1994). Secondo Clark questi approcci sono uno sviluppo evoluzionistico recente, finalizzato senza dubbio a facilitare le nostre interazioni sociali quotidiane: “I programmi sono stati in grado di imparare a fondere e confrontare vecchie, ma valide, strategie per andare incontro a nuove richieste; nuove strutture di dati hanno permesso ad un calcolatore di rispondere a domande relative alle implicazioni, non enunciate, di storie; i programmi di criptaritmetica riescono facilmente a superare le mie e le vostre capacità. Nonostante ciò sembra mancare qualcosa. Ai calcolatori programmati manca il sapore dell’intelligenza reale. Essi sono rigidi e fragili, capaci solo di eseguire bene solo alcuni compiti” (Clark, 1994).
Clark propone allora l’alternativa PDP (processi distribuiti paralleli) che lui definisce anche “dell’occhio del cervello”. Questa etichetta si riferisce alla similarità tra architetture dei modelli connessionisti e struttura cerebrale. Queste architetture si ispirano alle strutture neurali. I circuiti neurali delle lumache, dei criceti, delle scimmie e dell’uomo sono grandi reti parallele di processori riccamente interconnessi, ma relativamente lenti e semplici. La relativa lentezza dei singoli processori è controbilanciata dal fatto che essi collaborano in parallelo all’esecuzione dello stesso compito. Quello che avviene in queste reti è illustrato con una classica analogia con quello che accade quando una pellicola di sapone si distende attraverso un cerchio (come nelle bolle di sapone). Ogni molecola di sapone viene influenzata solo da quelle immediatamente vicine. Sul bordo la loro posizione è influenzata dal cerchio (il sistema iniziale). L’effetto iniziale viene propagato attraverso una serie diffusa di interazioni locali fino a quando non viene raggiunto un ordine globale. La pellicola di sapone si dispone in una configurazione stabile attraverso il cerchio. In un sistema PDP a questo punto diciamo che la rete si è rilassata in una soluzione del problema globale. Nella computazione, questo tipo di cooperazione in parallelo si rivela molto utile quando il compito richiede la soddisfazione simultanea di un gran numero di vincoli piccoli o “deboli”. In questi casi l’uso di un’architettura di cooperazione in parallelo può rendere trattabili compiti che (con processori così lenti) non saremmo mai in grado di portare a termine nel tempo a disposizione.
“Questi modelli sono ovviamente utili per compiti elementari, da un punto di vista evoluzionistico, come la visione e il controllo sensomotorio. (...) E’ infatti possibile che la flessibilità e il senso comune, che associamo al raggiungimento dei più alti traguardi della cognizione umana, siano il risultato di una forma computazionale sottostante scelta dalla selezione naturale proprio per la sua capacità di risolvere problemi prioritari da un punto di vista evoluzionistico” (Clark, 1994). La potenza di un sistema connessionista risiede non nelle singole unità (che sono processori abbastanza semplici), ma nelle connessioni abilmente costruite tra loro. Si sa infatti da lungo tempo che il cervello è composto da molte unità (neuroni), unite in parallelo da una vasta e intricata massa di giunzioni (sinapsi). In qualche modo questo insieme di unità relativamente semplici e di interconnessioni complesse dà origine alle più potenti macchine calcolatrici finora conosciute: gli organismi biologici. Gli studi nel campo dei processi distribuiti paralleli PDP sono ispirati dalle strutture neurali nel senso che anche i sistemi PDP usano processori molto semplici uniti in parallelo in modo intricato.
Queste teorizzazioni ispirate alle conoscenze neurali hanno un recente passato. In un certo senso discendono dalla psicologia della Gestalt . Senza andare troppo lontano possiamo dire che esse si muovono sul cammino tracciato dalla cibernetica, lo studio dei sistemi di autoregolazione. All’interno della cibernetica gli antecedenti più ovvi del connessionismo sono i lavori di Mc Culloch, Pitt, Hebb e Rosenblatt (Clark, 1994). Mc Culloch e Pitt dimostrarono che una rete idealizzata di elementi neuronali con connessioni eccitatorie e inibitorie poteva computare le funzioni logiche e, o e non (secondo la logica questo è sufficiente per esprimere qualsiasi funzione logica). Hebb fece un passo ulteriore suggerendo che semplici reti connessioniste possono memorizzare la corrispondenza di configurazioni di ingresso e uscita e possono imparare da sole, per esperienza, a distribuire i pesi delle connessioni tra le unità in modo da dare la risposta desiderata.
Rosenblatt aggiunse oltre con il suo lavoro sul percettrone. Il percettrone è una piccola rete di unità di ingresso connesse attraverso alcune unità intermedie con una unità di uscita. Questo modello verrà poi ulteriormente perfezionato da Mc Lelland, Rumelhart e Gruppo di ricerca PDP (Clark, 1994) proponendo un modello che possiede regole di apprendimento che, nella maggioranza dei casi, permettono ad un sistema dotato di unità nascoste di imparare ad usarle in qualsiasi modo sia necessario per il riconoscimento della struttura di input-output richiesta. I modelli PDP più recenti usano mezzi di codifica e di elaborazione dell’informazione che sono particolarmente adatti per compiti evoluzionisticamente primitivi come la visione e il controllo sensomotorio. Le architetture PDP cioè reti di unità connesse da legami inibitori ed eccitatori, organizzate in modo da seguire regole di apprendimento, sarebbero una scelta evoluzionisticamente naturale per eseguire tali compiti in modo relativamente veloce. L’uso di tali architetture come forme di base per soluzioni computazionali a richieste più avanzate (ad esempio la memoria semantica, l’elaborazione di frasi) rispetta richieste di continuità per la codifica ed il recupero dell’informazione. Laddove il cognitivismo classico vedeva una serie di realizzazioni distinte, ognuna delle quali ha bisogno di un proprio modello computazionale, nei sistemi PDP possono semplicemente vedere modi diversi di alto livello per descrivere la stessa forma di elaborazione sottostante: il tentativo costante di dare al sistema la miglior configurazione in corrispondenza di vari input endogeni ed esogeni. Fissiamo il modo di codificare, aggiornare e recuperare l’informazione e otteniamo varie forme di generalizzazione, degrado graduale, assegnazione per difetto, estrazione di prototipi, tutte peculiarità dei processi distribuiti paralleli. “Appare dal modello PDP che molte delle distinzioni che vengono fatte a livello superiore riflettano i nostri interessi epistemologici senza ritagliare nessuna differenza nella sottostante forma computazionale o attività del sistema. (...) Le differenze risiedono non nella sottostruttura computazionale ma nella relazione della struttura con gli stati del mondo che colpiscono il soggetto” (Clark, 1994).
Naturalmente anche al modello connessionista vengono avanzate alcune critiche. Fodor e Pylyshyn (Clark, 1994) propongono l’argomento della sistematicità che può essere così brevemente riassunto:
1. il pensiero è sistematico;
2. allora le rappresentazioni interne sono strutturate;
3. i modelli connessionisti postulano rappresentazioni non strutturate;
4. dunque le spiegazioni connessioniste sono inadeguate come modelli cognitivi.
Si afferma invece che le spiegazioni classiche postulano rappresentazioni interne con ricche strutture sintattiche e semantiche. Esse così si inseriscono nelle pieghe cognitive precluse ai connessionisti.
Secondo Clark (Clark, 1994) noi ascriviamo una rete di pensieri per spiegare e descrivere una ricca varietà di risposte comportamentali. L’idea generale è che l’ascrizione di pensiero sia un processo astratto, idealizzante ed olistico, che quindi non deve necessariamente corrispondere in modo semplice ai dettagli di qualche elaborazione interna. In breve, non è necessario che vi sia un collegamento quasi riduttivo, biunivoco, netto e ordinato, tra l’elaborazione interna alla testa e le ascrizioni proposizionali di credenze e pensieri fatte nel linguaggio quotidiano. Al contrario, un rendiconto sofisticato dell’elaborazione interna deve spiegare un ricco corpo di comportamenti (esterni ed interni) a cui poi noi diamo un senso olistico ascrivendogli una rete sistematica di pensieri astratti. Concludendo, le strutture sono costruzioni fatte a posteriori, con l’occhio della mente, per organizzare e dare un senso, costruire una psicologia del senso comune, ad una attività “che non postula elementi interni ricorrenti che si allineano con le varie parti delle descrizioni a livello concettuale” (Clark, 1994). La sistematicità delle frasi che ascrivono pensiero è un fatto concettuale. Trovarvi i pensieri richiede che le frasi formino una rete fortemente strutturata. Ciò che non è un fatto concettuale è la sistematicità del comportamento che olisticamente garantisce le attribuzioni di pensiero. E questa è una caratteristica dei sistemi PDP. Un sistema PDP “...può esibire tutti i tipi di competenza comportamentale sistematica senza che quella competenza richieda spiegazioni in termini di composizionalità a livello concettuale”. Per farla breve la scintilla, il fuoco è la connessione, il movimento di eccitazione e inibizione della rete neurale è l’autorganizzazione della rete, la molecolarità del sistema, e non la struttura o la forma.
Negli ultimi anni comunque la scienza cognitiva e lo studio sull’intelligenza artificiale si stanno muovendo verso un approccio che tenta di superare i dubbi a livello epistemologico, filosofico, biologico ed empirico insito nell’analogia organismo-computer. Secondo Clark (Clark, 1994) i modelli di intelligenza artificiale che hanno dominato, per tutti gli anni settanta ed ottanta, hanno esaminato la natura del pensiero umano dall’interno dell’esperienza umana normale ed hanno riposto troppa fiducia nella visione che la mente stessa ha della mente.
Secondo questa prospettiva, che Clark definisce “dell’occhio della mente”, “...le entità che hanno trovato il modo di giocare un ruolo in questi modelli sarebbero una traduzione abbastanza diretta in appropriati codici macchina delle nostre comuni espressioni di credenze e desideri” (Clark, 1994). Secondo Clark questi approcci sono uno sviluppo evoluzionistico recente, finalizzato senza dubbio a facilitare le nostre interazioni sociali quotidiane: “I programmi sono stati in grado di imparare a fondere e confrontare vecchie, ma valide, strategie per andare incontro a nuove richieste; nuove strutture di dati hanno permesso ad un calcolatore di rispondere a domande relative alle implicazioni, non enunciate, di storie; i programmi di criptaritmetica riescono facilmente a superare le mie e le vostre capacità. Nonostante ciò sembra mancare qualcosa. Ai calcolatori programmati manca il sapore dell’intelligenza reale. Essi sono rigidi e fragili, capaci solo di eseguire bene solo alcuni compiti” (Clark, 1994).
Clark propone allora l’alternativa PDP (processi distribuiti paralleli) che lui definisce anche “dell’occhio del cervello”. Questa etichetta si riferisce alla similarità tra architetture dei modelli connessionisti e struttura cerebrale. Queste architetture si ispirano alle strutture neurali. I circuiti neurali delle lumache, dei criceti, delle scimmie e dell’uomo sono grandi reti parallele di processori riccamente interconnessi, ma relativamente lenti e semplici. La relativa lentezza dei singoli processori è controbilanciata dal fatto che essi collaborano in parallelo all’esecuzione dello stesso compito. Quello che avviene in queste reti è illustrato con una classica analogia con quello che accade quando una pellicola di sapone si distende attraverso un cerchio (come nelle bolle di sapone). Ogni molecola di sapone viene influenzata solo da quelle immediatamente vicine. Sul bordo la loro posizione è influenzata dal cerchio (il sistema iniziale). L’effetto iniziale viene propagato attraverso una serie diffusa di interazioni locali fino a quando non viene raggiunto un ordine globale. La pellicola di sapone si dispone in una configurazione stabile attraverso il cerchio. In un sistema PDP a questo punto diciamo che la rete si è rilassata in una soluzione del problema globale. Nella computazione, questo tipo di cooperazione in parallelo si rivela molto utile quando il compito richiede la soddisfazione simultanea di un gran numero di vincoli piccoli o “deboli”. In questi casi l’uso di un’architettura di cooperazione in parallelo può rendere trattabili compiti che (con processori così lenti) non saremmo mai in grado di portare a termine nel tempo a disposizione.
“Questi modelli sono ovviamente utili per compiti elementari, da un punto di vista evoluzionistico, come la visione e il controllo sensomotorio. (...) E’ infatti possibile che la flessibilità e il senso comune, che associamo al raggiungimento dei più alti traguardi della cognizione umana, siano il risultato di una forma computazionale sottostante scelta dalla selezione naturale proprio per la sua capacità di risolvere problemi prioritari da un punto di vista evoluzionistico” (Clark, 1994). La potenza di un sistema connessionista risiede non nelle singole unità (che sono processori abbastanza semplici), ma nelle connessioni abilmente costruite tra loro. Si sa infatti da lungo tempo che il cervello è composto da molte unità (neuroni), unite in parallelo da una vasta e intricata massa di giunzioni (sinapsi). In qualche modo questo insieme di unità relativamente semplici e di interconnessioni complesse dà origine alle più potenti macchine calcolatrici finora conosciute: gli organismi biologici. Gli studi nel campo dei processi distribuiti paralleli PDP sono ispirati dalle strutture neurali nel senso che anche i sistemi PDP usano processori molto semplici uniti in parallelo in modo intricato.
Queste teorizzazioni ispirate alle conoscenze neurali hanno un recente passato. In un certo senso discendono dalla psicologia della Gestalt . Senza andare troppo lontano possiamo dire che esse si muovono sul cammino tracciato dalla cibernetica, lo studio dei sistemi di autoregolazione. All’interno della cibernetica gli antecedenti più ovvi del connessionismo sono i lavori di Mc Culloch, Pitt, Hebb e Rosenblatt (Clark, 1994). Mc Culloch e Pitt dimostrarono che una rete idealizzata di elementi neuronali con connessioni eccitatorie e inibitorie poteva computare le funzioni logiche e, o e non (secondo la logica questo è sufficiente per esprimere qualsiasi funzione logica). Hebb fece un passo ulteriore suggerendo che semplici reti connessioniste possono memorizzare la corrispondenza di configurazioni di ingresso e uscita e possono imparare da sole, per esperienza, a distribuire i pesi delle connessioni tra le unità in modo da dare la risposta desiderata.
Rosenblatt aggiunse oltre con il suo lavoro sul percettrone. Il percettrone è una piccola rete di unità di ingresso connesse attraverso alcune unità intermedie con una unità di uscita. Questo modello verrà poi ulteriormente perfezionato da Mc Lelland, Rumelhart e Gruppo di ricerca PDP (Clark, 1994) proponendo un modello che possiede regole di apprendimento che, nella maggioranza dei casi, permettono ad un sistema dotato di unità nascoste di imparare ad usarle in qualsiasi modo sia necessario per il riconoscimento della struttura di input-output richiesta. I modelli PDP più recenti usano mezzi di codifica e di elaborazione dell’informazione che sono particolarmente adatti per compiti evoluzionisticamente primitivi come la visione e il controllo sensomotorio. Le architetture PDP cioè reti di unità connesse da legami inibitori ed eccitatori, organizzate in modo da seguire regole di apprendimento, sarebbero una scelta evoluzionisticamente naturale per eseguire tali compiti in modo relativamente veloce. L’uso di tali architetture come forme di base per soluzioni computazionali a richieste più avanzate (ad esempio la memoria semantica, l’elaborazione di frasi) rispetta richieste di continuità per la codifica ed il recupero dell’informazione. Laddove il cognitivismo classico vedeva una serie di realizzazioni distinte, ognuna delle quali ha bisogno di un proprio modello computazionale, nei sistemi PDP possono semplicemente vedere modi diversi di alto livello per descrivere la stessa forma di elaborazione sottostante: il tentativo costante di dare al sistema la miglior configurazione in corrispondenza di vari input endogeni ed esogeni. Fissiamo il modo di codificare, aggiornare e recuperare l’informazione e otteniamo varie forme di generalizzazione, degrado graduale, assegnazione per difetto, estrazione di prototipi, tutte peculiarità dei processi distribuiti paralleli. “Appare dal modello PDP che molte delle distinzioni che vengono fatte a livello superiore riflettano i nostri interessi epistemologici senza ritagliare nessuna differenza nella sottostante forma computazionale o attività del sistema. (...) Le differenze risiedono non nella sottostruttura computazionale ma nella relazione della struttura con gli stati del mondo che colpiscono il soggetto” (Clark, 1994).
Naturalmente anche al modello connessionista vengono avanzate alcune critiche. Fodor e Pylyshyn (Clark, 1994) propongono l’argomento della sistematicità che può essere così brevemente riassunto:
1. il pensiero è sistematico;
2. allora le rappresentazioni interne sono strutturate;
3. i modelli connessionisti postulano rappresentazioni non strutturate;
4. dunque le spiegazioni connessioniste sono inadeguate come modelli cognitivi.
Si afferma invece che le spiegazioni classiche postulano rappresentazioni interne con ricche strutture sintattiche e semantiche. Esse così si inseriscono nelle pieghe cognitive precluse ai connessionisti.
Secondo Clark (Clark, 1994) noi ascriviamo una rete di pensieri per spiegare e descrivere una ricca varietà di risposte comportamentali. L’idea generale è che l’ascrizione di pensiero sia un processo astratto, idealizzante ed olistico, che quindi non deve necessariamente corrispondere in modo semplice ai dettagli di qualche elaborazione interna. In breve, non è necessario che vi sia un collegamento quasi riduttivo, biunivoco, netto e ordinato, tra l’elaborazione interna alla testa e le ascrizioni proposizionali di credenze e pensieri fatte nel linguaggio quotidiano. Al contrario, un rendiconto sofisticato dell’elaborazione interna deve spiegare un ricco corpo di comportamenti (esterni ed interni) a cui poi noi diamo un senso olistico ascrivendogli una rete sistematica di pensieri astratti. Concludendo, le strutture sono costruzioni fatte a posteriori, con l’occhio della mente, per organizzare e dare un senso, costruire una psicologia del senso comune, ad una attività “che non postula elementi interni ricorrenti che si allineano con le varie parti delle descrizioni a livello concettuale” (Clark, 1994). La sistematicità delle frasi che ascrivono pensiero è un fatto concettuale. Trovarvi i pensieri richiede che le frasi formino una rete fortemente strutturata. Ciò che non è un fatto concettuale è la sistematicità del comportamento che olisticamente garantisce le attribuzioni di pensiero. E questa è una caratteristica dei sistemi PDP. Un sistema PDP “...può esibire tutti i tipi di competenza comportamentale sistematica senza che quella competenza richieda spiegazioni in termini di composizionalità a livello concettuale”. Per farla breve la scintilla, il fuoco è la connessione, il movimento di eccitazione e inibizione della rete neurale è l’autorganizzazione della rete, la molecolarità del sistema, e non la struttura o la forma.
Project Management
Dal senso al significato Coord. Giuseppina Miccoli, del_senso.doc
3.2.1 Che cos’è il Project Management?
L’accettazione e l’uso dei concetti del moderno PM (Project Management) formale, per la gestione dei progetti, risalgono agli anni ’50 e a due settori ben distinti d’attività: quello militare e aerospaziale (per lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma e di nuovi sistemi per l’esplorazione dello spazio, assai complessi) e quello della progettazione e costruzione impiantistica. Da allora il PM si è affermato in molti altri settori.
Prima di tentare una qualsiasi definizione del PM, peraltro qualunque essa sia non è sicuramente esaustiva, è necessario chiarire il significato dei termini progetto, programma e compito, talvolta usati ambiguamente e in modo interscambiabile.
Per programma si intende un’iniziativa a lungo termine, di norma implicante più di un progetto. Talvolta assume lo stesso significato di “progetto”.
Il progetto rappresenta uno sforzo complesso, di regola di durata inferiore ai tre anni comportante “compiti” interrelati eseguiti da varie organizzazioni, con obiettivi, schedulazioni e budget ben definiti.
Il compito indica uno sforzo a breve termine (dai tre ai sei mesi) eseguito da una organizzazione, che insieme ad altri compiti, può costituire un progetto.
Alcune caratteristiche fondamentali comuni a tutti i progetti sono riassunte qui di seguito (Archibald, 1996).
I progetti sono degli sforzi complessi che hanno inizio e fine, e non sono ripetitivi. I progetti debbono dar luogo a risultati specifici a un momento dato rispettando limiti di budget. Essi sono trasversali, rispetto alle linee organizzative tradizionali. Si tratta di iniziative originali e non mere ripetizioni di iniziative precedenti.
Un progetto è il processo di creazione di determinati risultati. Un progetto può essere considerato come l’intero processo necessario per realizzare un nuovo prodotto, un nuovo stabilimento, un nuovo sistema o per ottenere altri risultati ben determinati. Spesso il prodotto che deve essere creato riceve più attenzione del processo che lo crea, ma sia il prodotto che il processo - il progetto - richiedono una gestione efficace. Il risultato finale è altra cosa dal progetto che lo ha fatto eseguire.
Il progetto ha una vita finita. La vita del progetto ha un inizio e una fine e procede attraverso fasi caratteristiche (1. Concezione 2. Definizione 3. Impostazione 4. Sviluppo/Produzione 5. Applicazione/Installazione 6. Coda) che però sono separate nettamente solo di rado le une dalle altre.
Il carattere del progetto cambia ad ogni fase. Ogni fase porta a risultati ben determinati i quali concorrono, a loro volta, all’input della fase successiva.
Il tasso di utilizzo delle risorse cambia normalmente aumentando con il succedersi delle fasi, per poi decrescere rapidamente quando il progetto volge al termine. Al temine di ogni fase progettuale esistono momenti cruciali di valutazione e di decisione.
L’incertezza per i tempi e i costi complessivi diminuisce man mano che il progetto procede. Il risultato stabilito è inscindibile dal tempo e dal costo che il suo conseguimento richiede. La necessità di sistemi e metodi di programmazione e controllo del progetto che consentano di prevedere il più presto e il più correttamente possibile il punto finale è dovuta a questa caratteristica dei progetti.
Molti progetti non sopravvivono alla fase di concezione o di definizione. Accade spesso che i progetti per nuovi prodotti vengano cancellati, perché non soddisfano i criteri di selezione o che le offerte per la progettazione o la costruzione di nuovi impianti, per esempio, non vengano accolte perché, magari, l’incarico viene dato ad un concorrente. E’ solitamente alla fine della fase di definizione o d’una fase equivalente, che viene data l’approvazione a che si dedichino risorse finanziarie significative: dopo di che il progetto ha ragionevoli garanzie di superare tutte le fasi rimanenti.
Il costo d’accelerazione di un progetto aumenta esponenzialmente man mano che si avvicina al completamento. Il recupero di tempo perduto di norma diventa più costoso in ogni fase successiva del progetto. Questa caratteristica sottolinea l’esigenza di un controllo integrato durante tutte le fasi con particolare attenzione alle fasi iniziali.
Illustrando il significato di progetto e le sue caratteristiche abbiamo evidenziato la necessità di coordinare e controllare le attività che costituiscono un processo di creazione di uno specifico risultato. Gli strumenti e il sistema di regole che facilitano il monitoraggio delle fasi di un programma, progetto o compito sono raccolti nella metodologia di lavoro definita, nella cultura manageriale, come PM o “gestione di progetto”. Sandro Miscia (in Archibald, 1996) definisce il PM come “gestione sistemica di un’impresa complessa, unica e di durata determinata, rivolta al raggiungimento di un obiettivo chiaro e predefinito mediante un processo continuo di pianificazione e controllo di risorse differenziate e con vincoli interdipendenti di costi-tempi-qualità”.
I concetti del PM offrono strade sicure per migliorare la gestione delle nostre attività: la definizione degli obiettivi e le modalità di coinvolgimento di risorse umane; la pianificazione e il conseguimento di questi obiettivi e la valutazione del tempo, del denaro e delle altre risorse necessarie; la direzione del processo d’esecuzione dei progetti intesi a conseguire questi obiettivi.
Dal punto di vista concettuale, la tradizionale visione secondo cui il PM era considerato sostanzialmente un insieme di tecniche e strumenti finalizzati alla corretta pianificazione e controllo del progetto sta da qualche anno lasciando spazio a una nuova concezione che vede il PM in modo più estensivo, ossia come una “filosofia organizzativa” (De Maio in Caramazza, 1990) e un “approccio globale ai problemi organizzativi gestionali delle aziende” (Taverna in Caramazza, 1990). Dal punto di vista applicativo, l’interesse da parte delle aziende verso il PM si sta rinnovando, è infatti sempre maggiore il numero e la varietà dei settori in cui esso viene adottato, come pure si allarga la tipologia dei problemi che le aziende gestiscono sotto forma di “progetto”. Se nel passato il PM veniva utilizzato per la gestione di grandi commesse, oggi sono sempre più frequenti i casi di imprese manifatturiere e di servizi che adottano il PM. I settori della sanità, dell’educazione, dei trasporti, del tempo libero, nonché molti servizi del terziario avanzato, hanno tutti riscontrato che l’approccio al PM finalizzato, ad esempio, a una ristrutturazione organizzativa per il cambiamento e l’innovazione, alla penetrazione di un nuovo mercato, alla realizzazione di un sistema informativo e all’identificazione di piani di formazione, migliora in modo significativo la loro efficacia e competitività.
3.2.2 Le fasi del progetto
Il ciclo di vita di un progetto, gestito con le tecniche del PM formale, inteso come spazio temporale compreso tra il punto di partenza ed il punto di arrivo del progetto stesso, consiste generalmente nelle seguenti fasi:
− concezione: proposta dell’idea del progetto e preliminari all’offerta. Individuazione dell’opportunità nonché valutazione della fattibilità in linea di massima;
− definizione: formulazione dell’iniziativa. Preparazione dell’offerta e del piano di investimento, ricerca dei finanziamenti e stesura del programma generale;
− impostazione: effettuazione degli studi, delle analisi e della progettazione esecutiva;
− sviluppo/produzione: approvvigionamento dei materiali e delle attrezzature, installazione e prova. Collaudi completi, analisi e documentazione dei risultati;
− coda: Relazione finale con il raffronto dei risultati effettivi e dei risultati attesi.
Il PM essendo la risposta alle sfide di un mondo, non più statico ma altamente dinamico, che deve sapere coniugare creatività con sistematicità e razionalità, controllo dei costi con innovazione, velocità con qualità totale e servizio al cliente si è imposto, negli ultimi anni, non solo nei più diversi settori dell’industria ma anche nei servizi, nelle banche, nella Pubblica Amministrazione. Queste e altre ragioni possono spiegare perché in diversi contesti organizzativi, dove il prodotto finale si può testare solo dopo l’immissione sul mercato configurandosi come un progetto atipico rispetto ai progetti tecnologici, si rilevano, confrontandole con le fasi del PM formale, solamente la fase di impostazione o ideazione, la fase di pianificazione, la fase di implementazione o esecuzione e la fase di conclusione o completamento.
La fase di ideazione o impostazione potrebbe sostituirsi alle fasi di concezione e definizione. In alcuni casi non si rileva la fase di concezione in quanto esiste un committente che richiede il solo preventivo per l’esecuzione del progetto, fornendo tutti gli elementi che avrebbero caratterizzato la prima fase del PM formale.
In altri casi esiste una fase di concezione, ma non è necessario eseguire la fase di definizione e fornire un preventivo di spesa per la richiesta di finanziamenti o per l’ottenimento dell’ordine, in quanto l’organizzazione che ha concepito il progetto lo dovrà realizzare per obblighi, per esempio, istituzionali, derivando i finanziamenti da risorse patrimoniali.
Nella fase di impostazione o ideazione del progetto spesso si ricorre alla S.W.O.T. (Strenght, Weakness, Opportunities, Threats) analisys, uno strumento valido, utilizzato nel marketing, che serve a visualizzare i punti di forza ed i punti di debolezza del progetto, le opportunità che possono venire da e per il progetto e l’organizzatore. Inoltre può individuare le minacce che potrebbero vanificare l’operazione. E’ un esercizio utile che consente di capire il grado di realizzabilità dell’operazione o può portare altrimenti alla decisione di abbandonare il progetto.
La fase di impostazione coincide con la fase di pianificazione, ma non si rilevano, nella realizzazione di un progetto in un contesto organizzativo orientato ai servizi, le fasi di sviluppo/produzione e applicazione/installazione, che generalmente corrispondono alla fase di implementazione o esecuzione. La fase denominata coda solitamente coincide con la fase di completamento o conclusione nella quale vengono eseguite le relazioni finali e una valutazione degli obiettivi raggiunti rispetto a quelli ipotizzati nella fase di impostazione o ideazione.
3.2.3 Gli aspetti della struttura organizzativa del progetto. Modelli organizzativi e ruoli tipici del Project Management
Gli obiettivi del PM sono duplici.
Il primo è quello di assicurare che i programmi e i progetti, già quando sono concepiti e approvati, comportino rischi accettabili per quanto riguarda i loro obiettivi di merito, di costo e di scadenza. Il secondo consiste nell’effettuare la pianificazione, il controllo e la conduzione di ciascun progetto in concomitanza con tutti gli altri programmi e progetti, in modo tale che ciascuno di essi raggiunga gli obiettivi che gli sono stati posti, producendo i risultati stabiliti rispettando i costi e le scadenze.
Tali obiettivi sono intimamente connessi alla direzione strategica dell’organizzazione.
Per il raggiungimento degli obiettivi, sopra descritti, l’organizzazione deve tener conto di alcuni aspetti, aspetti che Archibald definisce la “triade concettuale” del PM professionale (Archibald, 1996).
1. L’esplicitazione delle responsabilità per l’integrazione dei singoli apporti al progetto. Nelle organizzazioni impegnate nei progetti sono parecchi i ruoli da individuare esplicitamente come sede di responsabilità per l’integrazione dei singoli apporti; a tal proposito i più importanti sono:
− a livello di alta direzione: il Direttore Generale, lo sponsor di progetto;
− a livello di direzione del progetto: il pm (project manager);
− a livello di unità specialistica (function) il partecipante al progetto: i functional project leaders.
Lo sponsor di progetto è solitamente un alto dirigente o un organismo dell’alta direzione che agisce per conto o in nome dell’organizzazione promotrice o proprietaria. Il pm invece ha un ruolo operativo, in quanto definisce l’ambito e gli obiettivi del progetto così da soddisfare le esigenze strategiche del progetto indicate dallo sponsor. I responsabili di funzione integrano i singoli apporti al progetto da parte delle loro unità specialistiche o funzioni permanenti. La presenza o meno dei responsabili funzionali rispetto ai responsabili di funzione dipende dalla struttura organizzativa e dalla complessità del progetto.
Per i grandi progetti viene costituito un Project Office nel quale possono essere o non essere assegnati “gli specialisti” quali: l’Amministratore del “contratto” (responsabile dei contratti che autorizzano il progetto e di tutti i contratti stipulati con terzi per la fornitura di attrezzature e materiali), il Project controller (responsabile della pianificazione e controllo lavora a stretto contatto con il pm), il Contabile del progetto (fornisce al pm assistenza finanziaria e contabile per effettuare delle previsioni sui costi, lavoro anche con il Project controller), il Coordinatore della produzione (responsabile delle fasi di fabbricazione del prodotto finale), il Field Project Manager (responsabile delle fasi di installazione/collaudo del prodotto finale).
2. I sistemi di pianificazione e di controllo per la predizione e l’integrazione dei singoli apporti al progetto. Consistono nella pianificazione e nel controllo di ciascun progetto in modo integrato, comprendendo tutti gli apporti dalle unità specialistiche e dalle organizzazioni che vi partecipano. Molte organizzazioni si trovano a dover pianificare simultaneamente più progetti che traggono risorse dalle medesime unità specialistiche, facendo sorgere l’esigenza di impiegare un sistema unificato di pianificazione e controllo.
3. Il team di progetto come luogo di integrazione degli sforzi di tutti i partecipanti al progetto. La costituzione e la gestione del team di progetto è uno degli aspetti più delicati del PM. Il team di progetto rappresenta il luogo di integrazione degli sforzi di tutti i partecipanti al progetto. Non dimentichiamo, infatti, che i progetti consistono di molti compiti, di varia natura, e come tali richiedono risorse specialistiche diversificate. La massima efficacia, nel PM, si ottiene quando tutti i partecipanti collaborano e lavorano insieme come un team ben allenato sotto la guida del pm che assicura l’integrazione dei loro apporti in un complesso unitario. Il team di progetto comprende tutti i partecipanti al progetto, sia quelli che restano in organico alle singole funzioni, sia quelli che vengono assegnati al Project Office.
Nel definire gli obiettivi del PM e gli aspetti che lo caratterizzano abbiamo anticipato temi che necessitano di un maggior approfondimento: la definizione di un quadro organizzativo adeguato alle esigenze del PM e i suoi “ruoli tipici”, che, in parte, emergeranno già descrivendo le diverse strutture organizzative e in parte sono stati già descritti sopra.
Con riferimento al contesto organizzativo la fase di evoluzione concettuale e applicativa che il PM sta attualmente attraversando, se da una parte ne testimonia l’ampia potenzialità gestionale, dall’altra implica la difficoltà di riferirsi a un unico modello organizzativo di PM, sia dal punto di vista strutturale che di ruolo. Riprendendo un contributo fornito da Youker (Archibald, 1996) le tre principali forme organizzative (per funzioni, a matrice, per progetto) si possono rappresentare in un campo continuo nel quale un estremo è occupato dall’organizzazione per funzioni, l’altro estremo dall’organizzazione per progetti e il centro dall’organizzazione a matrice in una grande varietà di soluzioni, da quelle più simili all’organizzazione per funzioni (matrice debole) a quelle più simili all’organizzazione per progetti (matrice forte). Il campo continuo si riferisce alla percentuale di partecipanti che lavorano nell’unità di provenienza, specializzata per funzione (e, per converso, a quella dei partecipanti trasferiti a tempo pieno al progetto). Il passaggio dall’organizzazione per funzioni all’organizzazione a matrice si ha quando viene nominato un coordinatore a tempo parziale, con il compito di integrare tra loro gli apporti al progetto da parte delle singole funzioni.
In una struttura a matrice debole si ha un coordinatore a tempo parziale. La matrice si rafforza quando il coordinatore svolge il suo compito a tempo pieno e poi ancora quando viene nominato un pm e infine istituito un Project Office dedicato al progetto (Archibald, 1996).
La struttura debole viene adottata per progetti “semplici”, mentre quella forte per progetti “rilevanti e critici” (task force); nella maggior parte dei casi si adotta la struttura mista, così detta perché mette assieme, con miscele diverse, da un lato i principi della ripartizione e attribuzione delle attività, per quanto possibile, alle funzioni permanenti e dall’altro lato le caratteristiche principali di ruolo di pm, quali il lavoro in team e la possibilità di sfruttare al massimo le opportunità di sovrapporre le attività in forme non semplici.
Analizzando le varie strutture è emerso che il ruolo che dipende in modo più forte dalla struttura organizzativa del progetto è certamente quello di pm. Questa forte dipendenza porta spesso ad identificare i vari tipi di struttura in funzione delle responsabilità attribuite al pm sulla gestione delle risorse assegnate al progetto. In linea di massima si distinguono tre tipi di pm:
facilitatore, associato alla struttura debole, con compiti di comunicazione e presidio degli aspetti temporali del progetto (responsabilità sui tempi); l’autorità è limitata e lo status può essere inferiore a quello dei responsabili funzionali con cui interagisce nell’ambito del progetto;
coordinatore, associato alla struttura mista, con compiti di comunicazione e di controllo e responsabilità estesa agli aspetti temporali e di costo; l’autorità è su tutti gli aspetti del progetto ad eccezione del governo delle risorse che è mantenuto dalle funzioni; lo status è equivalente ai responsabili funzionali con cui interagisce nell’ambito del progetto;
manager o general manager, associato alla struttura forte, con compiti di direzione e di comando; l’autorità è estesa a tutte le leve di gestione del progetto incluse le risorse; lo status è equivalente o superiore a quello dei responsabili funzionali con cui interagisce nell’ambito del progetto. La massima criticità della figura e, di conseguenza, le più alte competenze professionali si hanno in corrispondenza del pm con compiti di direzione e di comando (manager e general manager). A questa figura compete creare il team di lavoro o di progetto.
A questo punto occorre una precisazione. Quanto esposto raccoglie dei fattori e dei principi generali, che caratterizzano il PM, ben consolidati e che possono combinarsi in funzione delle esigenze legate, di volta in volta, al progetto e che riferiscono alla potenzialità e flessibilità gestionale che il PM offre (De Maio, Bellucci, Corso, Verganti, 1994).
3.2.4 Gli ostacoli al Project Management
L’adozione di tecniche di PM per l’integrazione dei singoli apporti specialistici ai progetti e la conseguente formalizzazione della funzione di PM richiedono solitamente una crescita nell’organizzazione e notevoli cambiamenti, nella mentalità, nelle responsabilità, nei metodi e nelle relazioni di dipendenza. Questi cambiamenti non riguardano solo l’unità che conduce il progetto, ma anche tutte quelle che partecipano al team di progetto.
Numerosi fattori, culturali e non (riguardanti il contesto del progetto, le organizzazioni partecipanti, il settore, la regione geografica, le tradizioni nazionali), frappongono ostacoli a tali cambiamenti.
Si possono identificare gli ostacoli che richiedono maggior attenzione e maggior sforzo per l’accettazione del cambiamento nei seguenti campi:
1. ruoli d’integrazione di apporti diversi, al livello inferiore a quello di direttore generale: le responsabilità del pm e dei functional project leaders nell’integrazione dei vari apporti suscita resistenze nella struttura dell’organizzazione. Più l’organizzazione e l’ambiente sociale s’ispirano al paradigma autoritario, più sarà difficile superare questi ostacoli che saranno ancora più forti se è il pm, o il functional project leader, a ritenersi investito di quell’autorità e a tentare di farla valere;
2. condivisione di responsabilità progettuali: l’efficacia della direzione di progetto impone che i capi funzione, i pm e project functional leader sappiano come condividere le responsabilità progettuali. In linea di massima il pm è il responsabile del che cosa (l’oggetto del progetto) e del quando (le scadenze del progetto), mentre i capi funzione sono responsabile del come (le modalità d’esecuzione dei compiti). Tra le responsabilità del pm rientra il quanto (il budget) che di solito si basa sulle indicazione dei capi funzioni;
3. duplicità di dipendenza (dal capo funzione e dal pm): nelle culture tradizionali s’inculca il principio dell’unicità del comando. Questo accade nelle singole organizzazioni, ma anche in molte nazioni;
4. pianificazione e controllo dell’integrazione dei singoli apporti: nelle organizzazioni burocratiche s’inculca nel personale il principio che l’informazione è potere. Queste mentalità, abitudini e convinzioni radicate sono un ostacolo ai nuovi metodi che mirano a integrare i piani di tutti i partecipanti per elaborare il piano generale di progetto, a far conoscere l’avanzamento del lavoro di tutti e a segnalare i problemi e i conflitti al loro primo insorgere;
5. sistemi informativi di PM basati su computer: i manager di vecchia scuola e quelli che per formazione sono portati a disprezzare l’uso della tastiera incontrano difficoltà nell’attività direttiva. Bisogna assolutamente abbattere tutte le barriere che ancora separano il management dalle nuove tecnologie;
6. conflitto fra obiettivi di progetto e obiettivi di funzione: la gestione per progetti richiede, per essere efficace, che il personale sia capace di riconoscere l’importanza degli obiettivi di progetto e di porli al di sopra degli obiettivi personali e di quelli della funzione d’appartenenza;
7. riferimento primario al team, anziché all’individuo, nell’organizzazione del lavoro e nel giudizio sulla performance: i progetti richiedono che tutti i partecipanti instaurino un autentico lavoro di squadra, bisogna collaborare l’uno con l’altro;
8. durata finita degli incarichi di progetto (diversamente dall’assegnazione alle funzioni che, solitamente, è a tempo determinato): tutti cercano la stabilità. Molti non gradiscono le situazioni di progetto, perché espongono all’ignoto. Il progetto infatti è destinato a finire, anzi a finire quanto prima è possibile.
Si può favorire il superamento degli ostacoli all’adozione delle tecniche di PM con la strategia seguente, articolata in cinque fasi:
1. definizione dei cambiamenti da realizzare e individuazione degli ostacoli che vi possono frapporre;
2. maturazione della consapevolezza della necessità del cambiamento, con l’individuazione e lo sfruttamento delle forze motivanti che possono aiutare a superare gli ostacoli;
3. formazione e aggiornamento di tutto il personale coinvolto, secondo le indicazioni delle prime due fasi;
4. varo di “progetti di cambiamento” per l’implementazione delle nuove tecniche di PM;
5. aggiornamento delle tecniche di PM e/o del loro modo d’implementazione, per tenere conto degli ostacoli attuali o potenziali.
L’adozione di metodologie organizzative impone, innanzi tutto, la costruzione del consenso a tale idea strategica nell’organizzazione. L’implementazione o il miglioramento delle tecniche di PM richiedono quindi l’applicazione, a loro volta, di buone tecniche di PM, di un progetto, e si devono impostare in una prospettiva di lungo termine. Si possono distinguere, per la generalità delle organizzazioni, due modalità per mezzo delle quali è possibile acquisire una “cultura organizzativa” orientata all’applicazione delle tecniche di PM: la crescita progressiva lenta e costante, nei prodotti, nei servizi, nei mercati e nel personale; la crescita per salti di piccola, media o grande entità, ma comunque più consistenti dei piccoli passi che caratterizzano la crescita progressiva. I salti quando diventano davvero rilevanti si configurano inequivocabilmente come progetti. La buona conduzione del management strategico (vision) e del management di progetto (mission) comporta la selezione di validi progetti di crescita e la gestione professionale dei progetti stessi secondo pratiche ben collaudate di PM.
Non esiste, comunque, un’unica risposta per tutte le situazioni che determinano il contesto organizzativo strategico-aziendale. Piuttosto, bisogna adattare alle diverse situazioni i concetti generali del PM, prendendo anche in considerazione la cultura dell’organizzazione, che guida il progetto e il mix di culturale del team di progetto.
3.2.5 Team di progetto e human management
L’efficacia del PM si fonda in modo determinante sul riconoscimento che i progetti vengono pianificati e realizzati con l’apporto d’un gruppo composito, il team di progetto, e sul successo nel farlo funzionare come un vero team ben affiatato. Uno dei compiti principali del pm sarà di sviluppare un ésprit de corps nel team di progetto, cosa che s’è dimostrata essenziale per il conseguimento di obiettivi complessi, in tempi ristretti.
Il lavoro in team, da solo, non è un esclusività del PM, anche se costituisce una premessa essenziale per la sua riuscita.
Il progetto si compone di vari compiti (task) per ciascuno dei quali è richiesto personale di determinata esperienza e qualificazione. In senso lato, tutti i partecipanti a un certo progetto si possono considerare membri del team di progetto. Nei casi di maggiore entità, dove centinaia o persino migliaia di persone concorrono al progetto, occorre però individuare quali sono i membri determinanti del team di progetto, fra i quali si possono senz’altro annoverare il pm, i functional project leader e i principali specialisti delle funzioni ausiliare di PM. In molti progetti il cliente o il committente partecipa attivamente e viene perciò annoverato nel team di progetto. Sarà utile comprendervi i rappresentanti delle organizzazioni esterne che partecipano in vario modo al progetto.
Affinché un gruppo di persone, che si dedicano a compiti più o meno legati fra loro, costituisca un vero team di progetto occorre che siano verificate le condizioni di seguito riportate.
Individuazione esplicita dei membri del team di progetto con la definizione del ruolo e delle responsabilità di ciascuno. Un modo pratico per individuare chi fa parte del progetto e quello di iniziare con l’identificazione degli stakeholders : le persone e le organizzazioni che hanno un interesse, una responsabilità, un potere decisionale che riguarda il progetto e i suoi risultati. Dopo l’individuazione, si compila la lista dei membri e la si consegna all’intero team. La lista conterrà tutti i dati di ciascun membro per facilitare i contatti tra i singoli componenti del gruppo (nome, cognome, telefono, indirizzo, ecc.).
Obiettivi di progetto chiari e ben compresi. I team devono essere coscienti dell’esistenza d’una pluralità di aspettative sulle loro performance nel progetto. Le performance nel team sono giudicate secondo criteri hard o quantitativi (costi, tempi, ecc.) e soft o qualitativi, più soggettivi e meno suscettibili di riscontro misurabile. Intorno alla tensione verso l’eccellenza dei risultati, presente in un team di progetto, si è cristallizzata l’idea di superteam.
Piano di lavoro realistico, con scadenze ben chiare. Il team lavora con efficacia se ha un piano di lavoro che riflette bene il modo nel quale i membri lavoreranno.
Regole ben ragionate in merito al flusso delle informazioni, alla comunicazione, alle riunioni del team, ecc. Non è possibile ottenere un buon lavoro da un team di progetto senza aver stabilito regole, procedure e consuetudini ben ragionate circa il modo con cui si pianifica il progetto. Nei progetti di maggior entità, tali procedure sono generalmente ritagliate sulle esigenze specifiche e comunicate a tutti i membri del team con un manuale, una direttiva scritta o un documento similare.
Leadership del pm. Il pm è il leader del progetto e usa vari stili e varie tecniche di leadership, a seconda delle caratteristiche personali e di quelle del progetto e dell’ambiente in cui esso si svolge. Il pm non può contare su un unico stile di leadership per influire sul comportamento altrui. “Occorrono stili diversi nelle diverse situazioni. Bisogna saper cogliere i tratti distintivi delle circostanze e delle personalità che di volta in volta entrano in gioco” (Archibald, 1996). Il pm per motivare i singoli membri del team di progetto deve rendersi conto dei bisogni insoddisfatti per evitare il verificarsi di situazioni conflittuali che potranno essere superate instaurando un clima ispirato al problem solving e al confronto leale. Il decision-making partecipativo e l’empowerment contribuiscono alla qualità delle decisioni e all’unità del team.
3.2.5.1 I conflitti
Il pm deve approntare delle strategie che mirino al contenimento delle conflittualità all’interno del team. La consapevolezza delle materie di conflitto e la conoscenza della loro distribuzione nelle fasi progettuali può essere di grande utilità.
Una ricerca condotta da Thamhain e Wilemon (Archibald, 1996) su 100 pm individua sette materie di conflitto principali:
1. conflitti sulle priorità dei progetti: i punti di vista di quanti partecipano a un progetto spesso divergono sulla sequenza delle attività e dei compiti necessari per portarlo a termine. I conflitti sulle priorità possono verificarsi non solo tra il team e altri gruppi che concorrono al progetto, ma anche nell’ambito dello stesso gruppo di lavoro;
2. conflitti sulle procedure gestionali: possono nascere conflitti di tipo manageriale e amministrativo su come gestire il progetto. Essi riguardano generalmente la definizione delle responsabilità, i rapporti d’interfaccia, l’ambito del progetto, le necessità operative, il piano esecutivo, gli accordi di lavoro da negoziarsi con altri gruppi;
3. conflitti su opinioni e “compromessi” tecnici: nei progetti caratterizzati soprattutto dal contenuto tecnologico si possono verificare disaccordi su questioni tecniche, sulle specifiche di perfomance, su soluzioni di compromesso e sui mezzi per ottenere risultati tecnici;
4. conflitti sulle risorse umane: possono verificarsi conflitti sul reclutamento di personale per il team di progetto, perché le unità non lo distaccano volentieri al project office, o sono comunque poco disposte a impiegarlo per quel progetto, pur mantenendone il controllo diretto;
5. conflitti sui costi: sono frequenti i conflitti sulle stime dei costi effettuate dalle unità che dovranno eseguire i singoli compiti, nell’ambito del progetto;
6. conflitti sulla schedulazione: possono verificarsi disaccordi sulla durata, sulla sequenza e sulla schedulazione dei compiti relativi al progetto;
7. conflitti di personalità: molte volte i conflitti non derivano da divergenze sul piano del controllo, ma s’incentrano sull’Ego.
I modi più o meno importanti di risoluzione dei conflitti, così come sono stati individuati da Thamhain e Wilemon nella loro ricerca su 100 pm sono:
− confronto: affrontare apertamente il conflitto che deve essere risolto, per cui le parti accettano di sviscerare il loro disaccordo con l’obiettivo di trovare un punto d’incontro;
− compromesso: contrattare e ricercare soluzione che consentono una qualche soddisfazione per le parti; essere disposti a dare qualcosa per ottenere qualcosa;
− attenuazione: attenuare o evitare i punti di divergenza e sottolineare i punti sui quali si è d’accordo;
− pressione: far prevalere il proprio punto di vista a discapito di quello dell’avversario. Non lasciare vie d’uscita, se non la vittoria o la sconfitta;
− rinuncia: ritrarsi o recedere da un disaccordo reale o potenziale.
Le materie di conflitto che più interessano l’intero arco del progetto sono le scadenze, le priorità e le risorse umane. Pare che i pm, nella loro veste di integratori delle diverse risorse dell’organizzazione, debbano utilizzare tutte le strade per risolvere i conflitti. Mentre il confronto è ritenuto essere il metodo ideale nella maggior parte dei casi, altri metodi possono essere altrettanto efficaci a seconda delle situazioni che caratterizzano il disaccordo.
3.2.5.2 Il commitment
Oltre alla possibilità di conflitti all’interno del gruppo e della loro gestione, un altro aspetto, molto più importante opposto al conflitto, è la gestione dell’adesione al progetto.
Il ruolo del pm va solitamente svolto nell’ambito di un’organizzazione strutturata per funzioni. Ne risulta, com’è noto, una struttura a matrice che presenta numerose difficoltà: confusione sulle responsabilità e sull’autorità, conflitti fra gli obiettivi delle funzioni e quelle dei progetti, divergenze sulle priorità, con i problemi che ne conseguono.
Uno degli aspetti più ardui del ruolo del pm, proprio per queste difficoltà, è quello dell’impegno per i singoli apporti al progetto da parte delle funzioni che vi devono concorrere: il cosiddetto commitment.
L’importanza del commitment o adesione, rappresenta un altro aspetto della direzione del progetto. Questo aspetto del PM tocca il campo dello human management, inteso come tecnica per far corrispondere il comportamento agli obiettivi, alle priorità e alle interdipendenze del progetto.
La gestione dell’adesione richiede competenze particolari che gli individui possono già avere in vario grado. Per dimostrare al team di progetto che si è rilevata la loro adesione agli obiettivi occorre una combinazione ben dosata di comportamenti rafforzativi (dare l’esempio, premiare i risultati, reagire ai comportamenti denigratori, concentrarsi su ciò che più conta) e comportamenti innovativi (cercare sempre di far meglio, rimuovere i blocchi delle aspettative iniziali, creare un contesto aperto alle nuove idee, favorire una ragionevole apertura al rischio). Per ottenere l’adesione altrui occorrono pochi e semplici accorgimenti, da applicare però con costanza e convinzione:
offrire un modello comportamentale positivo, per tutto ciò che riguarda il commitment verso gli altri (principalmente attraverso l’esempio);
favorire in tutti il feedback continuo sulla performance, sull’avanzamento dei valori e sulle opportunità di miglioramento;
prestare attenzione sia all’applicazione dei piani, sia alla ricerca di miglioramenti;
mantenere l’equilibrio fra le esigenze e le priorità.
I pm che si conquistano il commitment dei membri del team di progetto e lo gestiscono attivamente nella pianificazione e nell’attuazione dei loro progetti hanno maggiori probabilità di conseguire gli obiettivi di progetto (Archibald, 1996).
3.2.6 La gestione del multi-project
Gli obiettivi nella gestione dei progetti multipli
All’interno di una organizzazione può verificarsi che ci si debba occupare di più progetti contemporaneamente, o anche in tempi successivi, e che questi abbiano tra loro una serie di interdipendenze; questo implica di dover pensare ad un livello superiore di governo, rispetto a quello ideato per ogni singolo progetto.
In genere viene creato un ufficio centrale di pianificazione e controllo affidandolo ad un Planning Manager, che diventa direttamente responsabile di tutte le attività dell’ufficio stesso. Questo tipo di organismo deve essere in grado di valutare e selezionare un portafoglio progetti e di averne una visione globale, in particolare deve verificare il rispetto dei vincoli, decidere l’allocazione delle risorse critiche, proteggere i progetti da disturbi reciproci e favorire le possibili sinergie (De Maio, 1994).
Gli obiettivi principali della gestione multi-project (Archibald, 1996) sono:
− il completamento di tutti i progetti per conseguire al meglio i fini generali dell’organizzazione;
− la determinazione delle priorità nell’accesso alle risorse critiche;
− l’acquisizione e il mantenimento di risorse adeguate al complesso dei progetti;
− lo sviluppo di schemi organizzativi e di sistemi di gestione che soddisfino le mutevoli esigenze dei progetti, assicurando nello stesso tempo stabilità organizzativa, sviluppo professionale ed efficienza amministrativa.
De Maio (1994) mette in evidenza come negli interventi organizzativi in cui si è deciso per l’adozione di un livello di gestione multi-project si possono individuare tre principali caratteristiche ad essi comuni:
Il carattere semi-permanente di queste strutture di governo;
la presenza di criteri di segmentazione, che permettono di raggruppare i progetti più fortemente interdipendenti tra loro, identificando così i gruppi oggetto di gestione multi-project;
l’enfasi sui processi di apprendimento, in queste strutture si deposita l’esperienza, accumulata nel tempo, proveniente da ogni singolo progetto.
La gestione delle interdipendenze
Nella gestione di molteplici progetti paralleli è necessario prendere in considerazione le varie interrelazioni che si sviluppano. Archibald (1996), in merito, identifica tre tipologie di interdipendenze:
− precedenze obbligate: i risultati derivanti dal completamento di un progetto devono essere disponibili prima che possa iniziare un altro progetto;
− ricorso alla medesima risorsa: uno specialista deve completare una attività in un progetto prima di poter iniziare un’altra attività in un altro progetto;
− tasso di utilizzo delle risorse umane: due o più progetti stanno utilizzando la stessa risorsa.
Più genericamente si può parlare (De Maio, 1994) di interdipendenze sui risultati, dove la realizzazione di un progetto è fondamentale per portarne a termine un altro, e di interdipendenze sulle risorse, ovvero dell’utilizzo nelle diverse fasi dello stesso stock limitato di risorse; e in una attività di questo tipo possiamo identificare i seguenti tipi di risorse (Archibald, 1996):
− il tempo
− il denaro;
− gli uomini;
− i mezzi a disposizione;
− le attrezzature;
− i materiali.
Possiamo affermare che la gestione delle interdipendenze sulle risorse è un fattore di alta criticità, infatti la stima delle risorse necessarie e l’acquisizione o la fornitura delle risorse in modo tempestivo ed efficiente, insieme alla pianificazione del lavoro e il controllo sul loro utilizzo, sono attività centrali; uno svolgimento approssimativo può compromettere la buona riuscita del progetto ed essere la causa di ritardi indesiderabili.
3.2.6.1 Valutazione, pianificazione e controllo del portafoglio progetti
Un’azienda che gestisce contemporaneamente più progetti deve avere, nel proprio organico, una funzione che si occupi della gestione del portafoglio progetti ovvero che sia in grado di individuare, scegliere, pianificare e controllare i progetti che potrebbero essere avviati parallelamente. In questo modo si assicurerà una maggiore efficacia nella risoluzione dei conflitti, una maggiore precisione nella previsione delle risorse necessarie e una maggiore uniformità nelle procedure.
Nelle situazioni in cui ci si trova a gestire molti progetti è opportuno adottare, formalmente e in maniera molto chiara, una politica di gestione delle priorità. Infatti anche la più accurata e corretta selezione del portafoglio progetti e la pianificazione delle risorse non potrà mai del tutto eliminare l’insorgere di conflitti per l’accesso alle risorse condivise.
“Poche organizzazioni risolvono questo problema applicando un metodo prestabilito. Ne consegue che molte decisioni sulle priorità vengono prese giorno per giorno, dal management di prima linea. Può quindi accadere che siano prese delle decisioni dissimili, o contraddittorie su due progetti simili, con il risultato che ambedue ne risultano danneggiati.” (Archibald, 1996)
Uno dei metodi per attribuire un livello di priorità a un progetto è quello dello Shorttest Processing Time; i progetti che richiedono minor tempo per essere completati devono avere la massima priorità.
Un altro metodo è quello di stabilire il grado di rilevanza-rischio: ad un progetto classificato con rilevanza alta e rischio alto va attribuita una alta priorità di accesso alle risorse critiche. Questo tipo di progetti vanno in un certo senso protetti, infatti, al fine di evitare ritardi nella loro esecuzione è necessario limitare al massimo le interdipendenze sulle risorse tra progetti ad alta priorità nella fase di definizione del portafoglio.
Uno dei metodi che permettono di identificare, e gestire, tutte le interdipendenze, siano esse sulle risorse o sui risultati legandole al grado di rilevanza/rischio, è quello delle tre R (De Maio, 1994):
1. Rilevanza: non solo dal punto di vista economico, ma anche di impatto per tutta l’azienda
2. Rischio: rappresenta l’impossibilità di definire con sicurezza il conseguimento degli obiettivi.
3. Risorse Critiche: la quantità di risorse critiche in azienda è una limitazione forte al numero di progetti che si possono portare avanti contemporaneamente.
Classificare i progetti rispetto a questi parametri fondamentali permette infatti di definire l’approccio più adatto per ciascun progetto, quale sia la sua priorità nell’accesso alle risorse critiche, quali forme organizzative adottare e quali siano gli strumenti di monitoraggio e controllo da utilizzare.
Si opera in pratica una selezione del portafoglio progetti mettendo in relazione le interdipendenze sulle risorse e le interdipendenze sui risultati, intese come rilevanza e rischio.
Se il portafoglio progetti non viene ritenuto soddisfacente si possono attuare degli interventi di miglioramento e di riclassificazione, ad esempio si possono effettuare degli interventi per aumentare la disponibilità di risorse critiche, oppure per aumentare la rilevanza riducendo i costi e incrementando la produttività, si può intervenire anche sulla capacità aziendale di gestire i fattori di rischio (De Maio, 1994).
In merito alla funzione di pianificazione e controllo Archibald (1996) approfondisce ulteriormente il discorso specificando che sono necessari sistemi per:
− la schedulazione e la valutazione delle operazioni;
− la valutazione della pianificazione;
− l’allocazione delle risorse.
Infine, questa funzione può essere vista come l’applicazione combinata dei moderni modelli di management e delle tecniche reticolari derivate dalla teoria dei sistemi.
3.2.1 Che cos’è il Project Management?
L’accettazione e l’uso dei concetti del moderno PM (Project Management) formale, per la gestione dei progetti, risalgono agli anni ’50 e a due settori ben distinti d’attività: quello militare e aerospaziale (per lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma e di nuovi sistemi per l’esplorazione dello spazio, assai complessi) e quello della progettazione e costruzione impiantistica. Da allora il PM si è affermato in molti altri settori.
Prima di tentare una qualsiasi definizione del PM, peraltro qualunque essa sia non è sicuramente esaustiva, è necessario chiarire il significato dei termini progetto, programma e compito, talvolta usati ambiguamente e in modo interscambiabile.
Per programma si intende un’iniziativa a lungo termine, di norma implicante più di un progetto. Talvolta assume lo stesso significato di “progetto”.
Il progetto rappresenta uno sforzo complesso, di regola di durata inferiore ai tre anni comportante “compiti” interrelati eseguiti da varie organizzazioni, con obiettivi, schedulazioni e budget ben definiti.
Il compito indica uno sforzo a breve termine (dai tre ai sei mesi) eseguito da una organizzazione, che insieme ad altri compiti, può costituire un progetto.
Alcune caratteristiche fondamentali comuni a tutti i progetti sono riassunte qui di seguito (Archibald, 1996).
I progetti sono degli sforzi complessi che hanno inizio e fine, e non sono ripetitivi. I progetti debbono dar luogo a risultati specifici a un momento dato rispettando limiti di budget. Essi sono trasversali, rispetto alle linee organizzative tradizionali. Si tratta di iniziative originali e non mere ripetizioni di iniziative precedenti.
Un progetto è il processo di creazione di determinati risultati. Un progetto può essere considerato come l’intero processo necessario per realizzare un nuovo prodotto, un nuovo stabilimento, un nuovo sistema o per ottenere altri risultati ben determinati. Spesso il prodotto che deve essere creato riceve più attenzione del processo che lo crea, ma sia il prodotto che il processo - il progetto - richiedono una gestione efficace. Il risultato finale è altra cosa dal progetto che lo ha fatto eseguire.
Il progetto ha una vita finita. La vita del progetto ha un inizio e una fine e procede attraverso fasi caratteristiche (1. Concezione 2. Definizione 3. Impostazione 4. Sviluppo/Produzione 5. Applicazione/Installazione 6. Coda) che però sono separate nettamente solo di rado le une dalle altre.
Il carattere del progetto cambia ad ogni fase. Ogni fase porta a risultati ben determinati i quali concorrono, a loro volta, all’input della fase successiva.
Il tasso di utilizzo delle risorse cambia normalmente aumentando con il succedersi delle fasi, per poi decrescere rapidamente quando il progetto volge al termine. Al temine di ogni fase progettuale esistono momenti cruciali di valutazione e di decisione.
L’incertezza per i tempi e i costi complessivi diminuisce man mano che il progetto procede. Il risultato stabilito è inscindibile dal tempo e dal costo che il suo conseguimento richiede. La necessità di sistemi e metodi di programmazione e controllo del progetto che consentano di prevedere il più presto e il più correttamente possibile il punto finale è dovuta a questa caratteristica dei progetti.
Molti progetti non sopravvivono alla fase di concezione o di definizione. Accade spesso che i progetti per nuovi prodotti vengano cancellati, perché non soddisfano i criteri di selezione o che le offerte per la progettazione o la costruzione di nuovi impianti, per esempio, non vengano accolte perché, magari, l’incarico viene dato ad un concorrente. E’ solitamente alla fine della fase di definizione o d’una fase equivalente, che viene data l’approvazione a che si dedichino risorse finanziarie significative: dopo di che il progetto ha ragionevoli garanzie di superare tutte le fasi rimanenti.
Il costo d’accelerazione di un progetto aumenta esponenzialmente man mano che si avvicina al completamento. Il recupero di tempo perduto di norma diventa più costoso in ogni fase successiva del progetto. Questa caratteristica sottolinea l’esigenza di un controllo integrato durante tutte le fasi con particolare attenzione alle fasi iniziali.
Illustrando il significato di progetto e le sue caratteristiche abbiamo evidenziato la necessità di coordinare e controllare le attività che costituiscono un processo di creazione di uno specifico risultato. Gli strumenti e il sistema di regole che facilitano il monitoraggio delle fasi di un programma, progetto o compito sono raccolti nella metodologia di lavoro definita, nella cultura manageriale, come PM o “gestione di progetto”. Sandro Miscia (in Archibald, 1996) definisce il PM come “gestione sistemica di un’impresa complessa, unica e di durata determinata, rivolta al raggiungimento di un obiettivo chiaro e predefinito mediante un processo continuo di pianificazione e controllo di risorse differenziate e con vincoli interdipendenti di costi-tempi-qualità”.
I concetti del PM offrono strade sicure per migliorare la gestione delle nostre attività: la definizione degli obiettivi e le modalità di coinvolgimento di risorse umane; la pianificazione e il conseguimento di questi obiettivi e la valutazione del tempo, del denaro e delle altre risorse necessarie; la direzione del processo d’esecuzione dei progetti intesi a conseguire questi obiettivi.
Dal punto di vista concettuale, la tradizionale visione secondo cui il PM era considerato sostanzialmente un insieme di tecniche e strumenti finalizzati alla corretta pianificazione e controllo del progetto sta da qualche anno lasciando spazio a una nuova concezione che vede il PM in modo più estensivo, ossia come una “filosofia organizzativa” (De Maio in Caramazza, 1990) e un “approccio globale ai problemi organizzativi gestionali delle aziende” (Taverna in Caramazza, 1990). Dal punto di vista applicativo, l’interesse da parte delle aziende verso il PM si sta rinnovando, è infatti sempre maggiore il numero e la varietà dei settori in cui esso viene adottato, come pure si allarga la tipologia dei problemi che le aziende gestiscono sotto forma di “progetto”. Se nel passato il PM veniva utilizzato per la gestione di grandi commesse, oggi sono sempre più frequenti i casi di imprese manifatturiere e di servizi che adottano il PM. I settori della sanità, dell’educazione, dei trasporti, del tempo libero, nonché molti servizi del terziario avanzato, hanno tutti riscontrato che l’approccio al PM finalizzato, ad esempio, a una ristrutturazione organizzativa per il cambiamento e l’innovazione, alla penetrazione di un nuovo mercato, alla realizzazione di un sistema informativo e all’identificazione di piani di formazione, migliora in modo significativo la loro efficacia e competitività.
3.2.2 Le fasi del progetto
Il ciclo di vita di un progetto, gestito con le tecniche del PM formale, inteso come spazio temporale compreso tra il punto di partenza ed il punto di arrivo del progetto stesso, consiste generalmente nelle seguenti fasi:
− concezione: proposta dell’idea del progetto e preliminari all’offerta. Individuazione dell’opportunità nonché valutazione della fattibilità in linea di massima;
− definizione: formulazione dell’iniziativa. Preparazione dell’offerta e del piano di investimento, ricerca dei finanziamenti e stesura del programma generale;
− impostazione: effettuazione degli studi, delle analisi e della progettazione esecutiva;
− sviluppo/produzione: approvvigionamento dei materiali e delle attrezzature, installazione e prova. Collaudi completi, analisi e documentazione dei risultati;
− coda: Relazione finale con il raffronto dei risultati effettivi e dei risultati attesi.
Il PM essendo la risposta alle sfide di un mondo, non più statico ma altamente dinamico, che deve sapere coniugare creatività con sistematicità e razionalità, controllo dei costi con innovazione, velocità con qualità totale e servizio al cliente si è imposto, negli ultimi anni, non solo nei più diversi settori dell’industria ma anche nei servizi, nelle banche, nella Pubblica Amministrazione. Queste e altre ragioni possono spiegare perché in diversi contesti organizzativi, dove il prodotto finale si può testare solo dopo l’immissione sul mercato configurandosi come un progetto atipico rispetto ai progetti tecnologici, si rilevano, confrontandole con le fasi del PM formale, solamente la fase di impostazione o ideazione, la fase di pianificazione, la fase di implementazione o esecuzione e la fase di conclusione o completamento.
La fase di ideazione o impostazione potrebbe sostituirsi alle fasi di concezione e definizione. In alcuni casi non si rileva la fase di concezione in quanto esiste un committente che richiede il solo preventivo per l’esecuzione del progetto, fornendo tutti gli elementi che avrebbero caratterizzato la prima fase del PM formale.
In altri casi esiste una fase di concezione, ma non è necessario eseguire la fase di definizione e fornire un preventivo di spesa per la richiesta di finanziamenti o per l’ottenimento dell’ordine, in quanto l’organizzazione che ha concepito il progetto lo dovrà realizzare per obblighi, per esempio, istituzionali, derivando i finanziamenti da risorse patrimoniali.
Nella fase di impostazione o ideazione del progetto spesso si ricorre alla S.W.O.T. (Strenght, Weakness, Opportunities, Threats) analisys, uno strumento valido, utilizzato nel marketing, che serve a visualizzare i punti di forza ed i punti di debolezza del progetto, le opportunità che possono venire da e per il progetto e l’organizzatore. Inoltre può individuare le minacce che potrebbero vanificare l’operazione. E’ un esercizio utile che consente di capire il grado di realizzabilità dell’operazione o può portare altrimenti alla decisione di abbandonare il progetto.
La fase di impostazione coincide con la fase di pianificazione, ma non si rilevano, nella realizzazione di un progetto in un contesto organizzativo orientato ai servizi, le fasi di sviluppo/produzione e applicazione/installazione, che generalmente corrispondono alla fase di implementazione o esecuzione. La fase denominata coda solitamente coincide con la fase di completamento o conclusione nella quale vengono eseguite le relazioni finali e una valutazione degli obiettivi raggiunti rispetto a quelli ipotizzati nella fase di impostazione o ideazione.
3.2.3 Gli aspetti della struttura organizzativa del progetto. Modelli organizzativi e ruoli tipici del Project Management
Gli obiettivi del PM sono duplici.
Il primo è quello di assicurare che i programmi e i progetti, già quando sono concepiti e approvati, comportino rischi accettabili per quanto riguarda i loro obiettivi di merito, di costo e di scadenza. Il secondo consiste nell’effettuare la pianificazione, il controllo e la conduzione di ciascun progetto in concomitanza con tutti gli altri programmi e progetti, in modo tale che ciascuno di essi raggiunga gli obiettivi che gli sono stati posti, producendo i risultati stabiliti rispettando i costi e le scadenze.
Tali obiettivi sono intimamente connessi alla direzione strategica dell’organizzazione.
Per il raggiungimento degli obiettivi, sopra descritti, l’organizzazione deve tener conto di alcuni aspetti, aspetti che Archibald definisce la “triade concettuale” del PM professionale (Archibald, 1996).
1. L’esplicitazione delle responsabilità per l’integrazione dei singoli apporti al progetto. Nelle organizzazioni impegnate nei progetti sono parecchi i ruoli da individuare esplicitamente come sede di responsabilità per l’integrazione dei singoli apporti; a tal proposito i più importanti sono:
− a livello di alta direzione: il Direttore Generale, lo sponsor di progetto;
− a livello di direzione del progetto: il pm (project manager);
− a livello di unità specialistica (function) il partecipante al progetto: i functional project leaders.
Lo sponsor di progetto è solitamente un alto dirigente o un organismo dell’alta direzione che agisce per conto o in nome dell’organizzazione promotrice o proprietaria. Il pm invece ha un ruolo operativo, in quanto definisce l’ambito e gli obiettivi del progetto così da soddisfare le esigenze strategiche del progetto indicate dallo sponsor. I responsabili di funzione integrano i singoli apporti al progetto da parte delle loro unità specialistiche o funzioni permanenti. La presenza o meno dei responsabili funzionali rispetto ai responsabili di funzione dipende dalla struttura organizzativa e dalla complessità del progetto.
Per i grandi progetti viene costituito un Project Office nel quale possono essere o non essere assegnati “gli specialisti” quali: l’Amministratore del “contratto” (responsabile dei contratti che autorizzano il progetto e di tutti i contratti stipulati con terzi per la fornitura di attrezzature e materiali), il Project controller (responsabile della pianificazione e controllo lavora a stretto contatto con il pm), il Contabile del progetto (fornisce al pm assistenza finanziaria e contabile per effettuare delle previsioni sui costi, lavoro anche con il Project controller), il Coordinatore della produzione (responsabile delle fasi di fabbricazione del prodotto finale), il Field Project Manager (responsabile delle fasi di installazione/collaudo del prodotto finale).
2. I sistemi di pianificazione e di controllo per la predizione e l’integrazione dei singoli apporti al progetto. Consistono nella pianificazione e nel controllo di ciascun progetto in modo integrato, comprendendo tutti gli apporti dalle unità specialistiche e dalle organizzazioni che vi partecipano. Molte organizzazioni si trovano a dover pianificare simultaneamente più progetti che traggono risorse dalle medesime unità specialistiche, facendo sorgere l’esigenza di impiegare un sistema unificato di pianificazione e controllo.
3. Il team di progetto come luogo di integrazione degli sforzi di tutti i partecipanti al progetto. La costituzione e la gestione del team di progetto è uno degli aspetti più delicati del PM. Il team di progetto rappresenta il luogo di integrazione degli sforzi di tutti i partecipanti al progetto. Non dimentichiamo, infatti, che i progetti consistono di molti compiti, di varia natura, e come tali richiedono risorse specialistiche diversificate. La massima efficacia, nel PM, si ottiene quando tutti i partecipanti collaborano e lavorano insieme come un team ben allenato sotto la guida del pm che assicura l’integrazione dei loro apporti in un complesso unitario. Il team di progetto comprende tutti i partecipanti al progetto, sia quelli che restano in organico alle singole funzioni, sia quelli che vengono assegnati al Project Office.
Nel definire gli obiettivi del PM e gli aspetti che lo caratterizzano abbiamo anticipato temi che necessitano di un maggior approfondimento: la definizione di un quadro organizzativo adeguato alle esigenze del PM e i suoi “ruoli tipici”, che, in parte, emergeranno già descrivendo le diverse strutture organizzative e in parte sono stati già descritti sopra.
Con riferimento al contesto organizzativo la fase di evoluzione concettuale e applicativa che il PM sta attualmente attraversando, se da una parte ne testimonia l’ampia potenzialità gestionale, dall’altra implica la difficoltà di riferirsi a un unico modello organizzativo di PM, sia dal punto di vista strutturale che di ruolo. Riprendendo un contributo fornito da Youker (Archibald, 1996) le tre principali forme organizzative (per funzioni, a matrice, per progetto) si possono rappresentare in un campo continuo nel quale un estremo è occupato dall’organizzazione per funzioni, l’altro estremo dall’organizzazione per progetti e il centro dall’organizzazione a matrice in una grande varietà di soluzioni, da quelle più simili all’organizzazione per funzioni (matrice debole) a quelle più simili all’organizzazione per progetti (matrice forte). Il campo continuo si riferisce alla percentuale di partecipanti che lavorano nell’unità di provenienza, specializzata per funzione (e, per converso, a quella dei partecipanti trasferiti a tempo pieno al progetto). Il passaggio dall’organizzazione per funzioni all’organizzazione a matrice si ha quando viene nominato un coordinatore a tempo parziale, con il compito di integrare tra loro gli apporti al progetto da parte delle singole funzioni.
In una struttura a matrice debole si ha un coordinatore a tempo parziale. La matrice si rafforza quando il coordinatore svolge il suo compito a tempo pieno e poi ancora quando viene nominato un pm e infine istituito un Project Office dedicato al progetto (Archibald, 1996).
La struttura debole viene adottata per progetti “semplici”, mentre quella forte per progetti “rilevanti e critici” (task force); nella maggior parte dei casi si adotta la struttura mista, così detta perché mette assieme, con miscele diverse, da un lato i principi della ripartizione e attribuzione delle attività, per quanto possibile, alle funzioni permanenti e dall’altro lato le caratteristiche principali di ruolo di pm, quali il lavoro in team e la possibilità di sfruttare al massimo le opportunità di sovrapporre le attività in forme non semplici.
Analizzando le varie strutture è emerso che il ruolo che dipende in modo più forte dalla struttura organizzativa del progetto è certamente quello di pm. Questa forte dipendenza porta spesso ad identificare i vari tipi di struttura in funzione delle responsabilità attribuite al pm sulla gestione delle risorse assegnate al progetto. In linea di massima si distinguono tre tipi di pm:
facilitatore, associato alla struttura debole, con compiti di comunicazione e presidio degli aspetti temporali del progetto (responsabilità sui tempi); l’autorità è limitata e lo status può essere inferiore a quello dei responsabili funzionali con cui interagisce nell’ambito del progetto;
coordinatore, associato alla struttura mista, con compiti di comunicazione e di controllo e responsabilità estesa agli aspetti temporali e di costo; l’autorità è su tutti gli aspetti del progetto ad eccezione del governo delle risorse che è mantenuto dalle funzioni; lo status è equivalente ai responsabili funzionali con cui interagisce nell’ambito del progetto;
manager o general manager, associato alla struttura forte, con compiti di direzione e di comando; l’autorità è estesa a tutte le leve di gestione del progetto incluse le risorse; lo status è equivalente o superiore a quello dei responsabili funzionali con cui interagisce nell’ambito del progetto. La massima criticità della figura e, di conseguenza, le più alte competenze professionali si hanno in corrispondenza del pm con compiti di direzione e di comando (manager e general manager). A questa figura compete creare il team di lavoro o di progetto.
A questo punto occorre una precisazione. Quanto esposto raccoglie dei fattori e dei principi generali, che caratterizzano il PM, ben consolidati e che possono combinarsi in funzione delle esigenze legate, di volta in volta, al progetto e che riferiscono alla potenzialità e flessibilità gestionale che il PM offre (De Maio, Bellucci, Corso, Verganti, 1994).
3.2.4 Gli ostacoli al Project Management
L’adozione di tecniche di PM per l’integrazione dei singoli apporti specialistici ai progetti e la conseguente formalizzazione della funzione di PM richiedono solitamente una crescita nell’organizzazione e notevoli cambiamenti, nella mentalità, nelle responsabilità, nei metodi e nelle relazioni di dipendenza. Questi cambiamenti non riguardano solo l’unità che conduce il progetto, ma anche tutte quelle che partecipano al team di progetto.
Numerosi fattori, culturali e non (riguardanti il contesto del progetto, le organizzazioni partecipanti, il settore, la regione geografica, le tradizioni nazionali), frappongono ostacoli a tali cambiamenti.
Si possono identificare gli ostacoli che richiedono maggior attenzione e maggior sforzo per l’accettazione del cambiamento nei seguenti campi:
1. ruoli d’integrazione di apporti diversi, al livello inferiore a quello di direttore generale: le responsabilità del pm e dei functional project leaders nell’integrazione dei vari apporti suscita resistenze nella struttura dell’organizzazione. Più l’organizzazione e l’ambiente sociale s’ispirano al paradigma autoritario, più sarà difficile superare questi ostacoli che saranno ancora più forti se è il pm, o il functional project leader, a ritenersi investito di quell’autorità e a tentare di farla valere;
2. condivisione di responsabilità progettuali: l’efficacia della direzione di progetto impone che i capi funzione, i pm e project functional leader sappiano come condividere le responsabilità progettuali. In linea di massima il pm è il responsabile del che cosa (l’oggetto del progetto) e del quando (le scadenze del progetto), mentre i capi funzione sono responsabile del come (le modalità d’esecuzione dei compiti). Tra le responsabilità del pm rientra il quanto (il budget) che di solito si basa sulle indicazione dei capi funzioni;
3. duplicità di dipendenza (dal capo funzione e dal pm): nelle culture tradizionali s’inculca il principio dell’unicità del comando. Questo accade nelle singole organizzazioni, ma anche in molte nazioni;
4. pianificazione e controllo dell’integrazione dei singoli apporti: nelle organizzazioni burocratiche s’inculca nel personale il principio che l’informazione è potere. Queste mentalità, abitudini e convinzioni radicate sono un ostacolo ai nuovi metodi che mirano a integrare i piani di tutti i partecipanti per elaborare il piano generale di progetto, a far conoscere l’avanzamento del lavoro di tutti e a segnalare i problemi e i conflitti al loro primo insorgere;
5. sistemi informativi di PM basati su computer: i manager di vecchia scuola e quelli che per formazione sono portati a disprezzare l’uso della tastiera incontrano difficoltà nell’attività direttiva. Bisogna assolutamente abbattere tutte le barriere che ancora separano il management dalle nuove tecnologie;
6. conflitto fra obiettivi di progetto e obiettivi di funzione: la gestione per progetti richiede, per essere efficace, che il personale sia capace di riconoscere l’importanza degli obiettivi di progetto e di porli al di sopra degli obiettivi personali e di quelli della funzione d’appartenenza;
7. riferimento primario al team, anziché all’individuo, nell’organizzazione del lavoro e nel giudizio sulla performance: i progetti richiedono che tutti i partecipanti instaurino un autentico lavoro di squadra, bisogna collaborare l’uno con l’altro;
8. durata finita degli incarichi di progetto (diversamente dall’assegnazione alle funzioni che, solitamente, è a tempo determinato): tutti cercano la stabilità. Molti non gradiscono le situazioni di progetto, perché espongono all’ignoto. Il progetto infatti è destinato a finire, anzi a finire quanto prima è possibile.
Si può favorire il superamento degli ostacoli all’adozione delle tecniche di PM con la strategia seguente, articolata in cinque fasi:
1. definizione dei cambiamenti da realizzare e individuazione degli ostacoli che vi possono frapporre;
2. maturazione della consapevolezza della necessità del cambiamento, con l’individuazione e lo sfruttamento delle forze motivanti che possono aiutare a superare gli ostacoli;
3. formazione e aggiornamento di tutto il personale coinvolto, secondo le indicazioni delle prime due fasi;
4. varo di “progetti di cambiamento” per l’implementazione delle nuove tecniche di PM;
5. aggiornamento delle tecniche di PM e/o del loro modo d’implementazione, per tenere conto degli ostacoli attuali o potenziali.
L’adozione di metodologie organizzative impone, innanzi tutto, la costruzione del consenso a tale idea strategica nell’organizzazione. L’implementazione o il miglioramento delle tecniche di PM richiedono quindi l’applicazione, a loro volta, di buone tecniche di PM, di un progetto, e si devono impostare in una prospettiva di lungo termine. Si possono distinguere, per la generalità delle organizzazioni, due modalità per mezzo delle quali è possibile acquisire una “cultura organizzativa” orientata all’applicazione delle tecniche di PM: la crescita progressiva lenta e costante, nei prodotti, nei servizi, nei mercati e nel personale; la crescita per salti di piccola, media o grande entità, ma comunque più consistenti dei piccoli passi che caratterizzano la crescita progressiva. I salti quando diventano davvero rilevanti si configurano inequivocabilmente come progetti. La buona conduzione del management strategico (vision) e del management di progetto (mission) comporta la selezione di validi progetti di crescita e la gestione professionale dei progetti stessi secondo pratiche ben collaudate di PM.
Non esiste, comunque, un’unica risposta per tutte le situazioni che determinano il contesto organizzativo strategico-aziendale. Piuttosto, bisogna adattare alle diverse situazioni i concetti generali del PM, prendendo anche in considerazione la cultura dell’organizzazione, che guida il progetto e il mix di culturale del team di progetto.
3.2.5 Team di progetto e human management
L’efficacia del PM si fonda in modo determinante sul riconoscimento che i progetti vengono pianificati e realizzati con l’apporto d’un gruppo composito, il team di progetto, e sul successo nel farlo funzionare come un vero team ben affiatato. Uno dei compiti principali del pm sarà di sviluppare un ésprit de corps nel team di progetto, cosa che s’è dimostrata essenziale per il conseguimento di obiettivi complessi, in tempi ristretti.
Il lavoro in team, da solo, non è un esclusività del PM, anche se costituisce una premessa essenziale per la sua riuscita.
Il progetto si compone di vari compiti (task) per ciascuno dei quali è richiesto personale di determinata esperienza e qualificazione. In senso lato, tutti i partecipanti a un certo progetto si possono considerare membri del team di progetto. Nei casi di maggiore entità, dove centinaia o persino migliaia di persone concorrono al progetto, occorre però individuare quali sono i membri determinanti del team di progetto, fra i quali si possono senz’altro annoverare il pm, i functional project leader e i principali specialisti delle funzioni ausiliare di PM. In molti progetti il cliente o il committente partecipa attivamente e viene perciò annoverato nel team di progetto. Sarà utile comprendervi i rappresentanti delle organizzazioni esterne che partecipano in vario modo al progetto.
Affinché un gruppo di persone, che si dedicano a compiti più o meno legati fra loro, costituisca un vero team di progetto occorre che siano verificate le condizioni di seguito riportate.
Individuazione esplicita dei membri del team di progetto con la definizione del ruolo e delle responsabilità di ciascuno. Un modo pratico per individuare chi fa parte del progetto e quello di iniziare con l’identificazione degli stakeholders : le persone e le organizzazioni che hanno un interesse, una responsabilità, un potere decisionale che riguarda il progetto e i suoi risultati. Dopo l’individuazione, si compila la lista dei membri e la si consegna all’intero team. La lista conterrà tutti i dati di ciascun membro per facilitare i contatti tra i singoli componenti del gruppo (nome, cognome, telefono, indirizzo, ecc.).
Obiettivi di progetto chiari e ben compresi. I team devono essere coscienti dell’esistenza d’una pluralità di aspettative sulle loro performance nel progetto. Le performance nel team sono giudicate secondo criteri hard o quantitativi (costi, tempi, ecc.) e soft o qualitativi, più soggettivi e meno suscettibili di riscontro misurabile. Intorno alla tensione verso l’eccellenza dei risultati, presente in un team di progetto, si è cristallizzata l’idea di superteam.
Piano di lavoro realistico, con scadenze ben chiare. Il team lavora con efficacia se ha un piano di lavoro che riflette bene il modo nel quale i membri lavoreranno.
Regole ben ragionate in merito al flusso delle informazioni, alla comunicazione, alle riunioni del team, ecc. Non è possibile ottenere un buon lavoro da un team di progetto senza aver stabilito regole, procedure e consuetudini ben ragionate circa il modo con cui si pianifica il progetto. Nei progetti di maggior entità, tali procedure sono generalmente ritagliate sulle esigenze specifiche e comunicate a tutti i membri del team con un manuale, una direttiva scritta o un documento similare.
Leadership del pm. Il pm è il leader del progetto e usa vari stili e varie tecniche di leadership, a seconda delle caratteristiche personali e di quelle del progetto e dell’ambiente in cui esso si svolge. Il pm non può contare su un unico stile di leadership per influire sul comportamento altrui. “Occorrono stili diversi nelle diverse situazioni. Bisogna saper cogliere i tratti distintivi delle circostanze e delle personalità che di volta in volta entrano in gioco” (Archibald, 1996). Il pm per motivare i singoli membri del team di progetto deve rendersi conto dei bisogni insoddisfatti per evitare il verificarsi di situazioni conflittuali che potranno essere superate instaurando un clima ispirato al problem solving e al confronto leale. Il decision-making partecipativo e l’empowerment contribuiscono alla qualità delle decisioni e all’unità del team.
3.2.5.1 I conflitti
Il pm deve approntare delle strategie che mirino al contenimento delle conflittualità all’interno del team. La consapevolezza delle materie di conflitto e la conoscenza della loro distribuzione nelle fasi progettuali può essere di grande utilità.
Una ricerca condotta da Thamhain e Wilemon (Archibald, 1996) su 100 pm individua sette materie di conflitto principali:
1. conflitti sulle priorità dei progetti: i punti di vista di quanti partecipano a un progetto spesso divergono sulla sequenza delle attività e dei compiti necessari per portarlo a termine. I conflitti sulle priorità possono verificarsi non solo tra il team e altri gruppi che concorrono al progetto, ma anche nell’ambito dello stesso gruppo di lavoro;
2. conflitti sulle procedure gestionali: possono nascere conflitti di tipo manageriale e amministrativo su come gestire il progetto. Essi riguardano generalmente la definizione delle responsabilità, i rapporti d’interfaccia, l’ambito del progetto, le necessità operative, il piano esecutivo, gli accordi di lavoro da negoziarsi con altri gruppi;
3. conflitti su opinioni e “compromessi” tecnici: nei progetti caratterizzati soprattutto dal contenuto tecnologico si possono verificare disaccordi su questioni tecniche, sulle specifiche di perfomance, su soluzioni di compromesso e sui mezzi per ottenere risultati tecnici;
4. conflitti sulle risorse umane: possono verificarsi conflitti sul reclutamento di personale per il team di progetto, perché le unità non lo distaccano volentieri al project office, o sono comunque poco disposte a impiegarlo per quel progetto, pur mantenendone il controllo diretto;
5. conflitti sui costi: sono frequenti i conflitti sulle stime dei costi effettuate dalle unità che dovranno eseguire i singoli compiti, nell’ambito del progetto;
6. conflitti sulla schedulazione: possono verificarsi disaccordi sulla durata, sulla sequenza e sulla schedulazione dei compiti relativi al progetto;
7. conflitti di personalità: molte volte i conflitti non derivano da divergenze sul piano del controllo, ma s’incentrano sull’Ego.
I modi più o meno importanti di risoluzione dei conflitti, così come sono stati individuati da Thamhain e Wilemon nella loro ricerca su 100 pm sono:
− confronto: affrontare apertamente il conflitto che deve essere risolto, per cui le parti accettano di sviscerare il loro disaccordo con l’obiettivo di trovare un punto d’incontro;
− compromesso: contrattare e ricercare soluzione che consentono una qualche soddisfazione per le parti; essere disposti a dare qualcosa per ottenere qualcosa;
− attenuazione: attenuare o evitare i punti di divergenza e sottolineare i punti sui quali si è d’accordo;
− pressione: far prevalere il proprio punto di vista a discapito di quello dell’avversario. Non lasciare vie d’uscita, se non la vittoria o la sconfitta;
− rinuncia: ritrarsi o recedere da un disaccordo reale o potenziale.
Le materie di conflitto che più interessano l’intero arco del progetto sono le scadenze, le priorità e le risorse umane. Pare che i pm, nella loro veste di integratori delle diverse risorse dell’organizzazione, debbano utilizzare tutte le strade per risolvere i conflitti. Mentre il confronto è ritenuto essere il metodo ideale nella maggior parte dei casi, altri metodi possono essere altrettanto efficaci a seconda delle situazioni che caratterizzano il disaccordo.
3.2.5.2 Il commitment
Oltre alla possibilità di conflitti all’interno del gruppo e della loro gestione, un altro aspetto, molto più importante opposto al conflitto, è la gestione dell’adesione al progetto.
Il ruolo del pm va solitamente svolto nell’ambito di un’organizzazione strutturata per funzioni. Ne risulta, com’è noto, una struttura a matrice che presenta numerose difficoltà: confusione sulle responsabilità e sull’autorità, conflitti fra gli obiettivi delle funzioni e quelle dei progetti, divergenze sulle priorità, con i problemi che ne conseguono.
Uno degli aspetti più ardui del ruolo del pm, proprio per queste difficoltà, è quello dell’impegno per i singoli apporti al progetto da parte delle funzioni che vi devono concorrere: il cosiddetto commitment.
L’importanza del commitment o adesione, rappresenta un altro aspetto della direzione del progetto. Questo aspetto del PM tocca il campo dello human management, inteso come tecnica per far corrispondere il comportamento agli obiettivi, alle priorità e alle interdipendenze del progetto.
La gestione dell’adesione richiede competenze particolari che gli individui possono già avere in vario grado. Per dimostrare al team di progetto che si è rilevata la loro adesione agli obiettivi occorre una combinazione ben dosata di comportamenti rafforzativi (dare l’esempio, premiare i risultati, reagire ai comportamenti denigratori, concentrarsi su ciò che più conta) e comportamenti innovativi (cercare sempre di far meglio, rimuovere i blocchi delle aspettative iniziali, creare un contesto aperto alle nuove idee, favorire una ragionevole apertura al rischio). Per ottenere l’adesione altrui occorrono pochi e semplici accorgimenti, da applicare però con costanza e convinzione:
offrire un modello comportamentale positivo, per tutto ciò che riguarda il commitment verso gli altri (principalmente attraverso l’esempio);
favorire in tutti il feedback continuo sulla performance, sull’avanzamento dei valori e sulle opportunità di miglioramento;
prestare attenzione sia all’applicazione dei piani, sia alla ricerca di miglioramenti;
mantenere l’equilibrio fra le esigenze e le priorità.
I pm che si conquistano il commitment dei membri del team di progetto e lo gestiscono attivamente nella pianificazione e nell’attuazione dei loro progetti hanno maggiori probabilità di conseguire gli obiettivi di progetto (Archibald, 1996).
3.2.6 La gestione del multi-project
Gli obiettivi nella gestione dei progetti multipli
All’interno di una organizzazione può verificarsi che ci si debba occupare di più progetti contemporaneamente, o anche in tempi successivi, e che questi abbiano tra loro una serie di interdipendenze; questo implica di dover pensare ad un livello superiore di governo, rispetto a quello ideato per ogni singolo progetto.
In genere viene creato un ufficio centrale di pianificazione e controllo affidandolo ad un Planning Manager, che diventa direttamente responsabile di tutte le attività dell’ufficio stesso. Questo tipo di organismo deve essere in grado di valutare e selezionare un portafoglio progetti e di averne una visione globale, in particolare deve verificare il rispetto dei vincoli, decidere l’allocazione delle risorse critiche, proteggere i progetti da disturbi reciproci e favorire le possibili sinergie (De Maio, 1994).
Gli obiettivi principali della gestione multi-project (Archibald, 1996) sono:
− il completamento di tutti i progetti per conseguire al meglio i fini generali dell’organizzazione;
− la determinazione delle priorità nell’accesso alle risorse critiche;
− l’acquisizione e il mantenimento di risorse adeguate al complesso dei progetti;
− lo sviluppo di schemi organizzativi e di sistemi di gestione che soddisfino le mutevoli esigenze dei progetti, assicurando nello stesso tempo stabilità organizzativa, sviluppo professionale ed efficienza amministrativa.
De Maio (1994) mette in evidenza come negli interventi organizzativi in cui si è deciso per l’adozione di un livello di gestione multi-project si possono individuare tre principali caratteristiche ad essi comuni:
Il carattere semi-permanente di queste strutture di governo;
la presenza di criteri di segmentazione, che permettono di raggruppare i progetti più fortemente interdipendenti tra loro, identificando così i gruppi oggetto di gestione multi-project;
l’enfasi sui processi di apprendimento, in queste strutture si deposita l’esperienza, accumulata nel tempo, proveniente da ogni singolo progetto.
La gestione delle interdipendenze
Nella gestione di molteplici progetti paralleli è necessario prendere in considerazione le varie interrelazioni che si sviluppano. Archibald (1996), in merito, identifica tre tipologie di interdipendenze:
− precedenze obbligate: i risultati derivanti dal completamento di un progetto devono essere disponibili prima che possa iniziare un altro progetto;
− ricorso alla medesima risorsa: uno specialista deve completare una attività in un progetto prima di poter iniziare un’altra attività in un altro progetto;
− tasso di utilizzo delle risorse umane: due o più progetti stanno utilizzando la stessa risorsa.
Più genericamente si può parlare (De Maio, 1994) di interdipendenze sui risultati, dove la realizzazione di un progetto è fondamentale per portarne a termine un altro, e di interdipendenze sulle risorse, ovvero dell’utilizzo nelle diverse fasi dello stesso stock limitato di risorse; e in una attività di questo tipo possiamo identificare i seguenti tipi di risorse (Archibald, 1996):
− il tempo
− il denaro;
− gli uomini;
− i mezzi a disposizione;
− le attrezzature;
− i materiali.
Possiamo affermare che la gestione delle interdipendenze sulle risorse è un fattore di alta criticità, infatti la stima delle risorse necessarie e l’acquisizione o la fornitura delle risorse in modo tempestivo ed efficiente, insieme alla pianificazione del lavoro e il controllo sul loro utilizzo, sono attività centrali; uno svolgimento approssimativo può compromettere la buona riuscita del progetto ed essere la causa di ritardi indesiderabili.
3.2.6.1 Valutazione, pianificazione e controllo del portafoglio progetti
Un’azienda che gestisce contemporaneamente più progetti deve avere, nel proprio organico, una funzione che si occupi della gestione del portafoglio progetti ovvero che sia in grado di individuare, scegliere, pianificare e controllare i progetti che potrebbero essere avviati parallelamente. In questo modo si assicurerà una maggiore efficacia nella risoluzione dei conflitti, una maggiore precisione nella previsione delle risorse necessarie e una maggiore uniformità nelle procedure.
Nelle situazioni in cui ci si trova a gestire molti progetti è opportuno adottare, formalmente e in maniera molto chiara, una politica di gestione delle priorità. Infatti anche la più accurata e corretta selezione del portafoglio progetti e la pianificazione delle risorse non potrà mai del tutto eliminare l’insorgere di conflitti per l’accesso alle risorse condivise.
“Poche organizzazioni risolvono questo problema applicando un metodo prestabilito. Ne consegue che molte decisioni sulle priorità vengono prese giorno per giorno, dal management di prima linea. Può quindi accadere che siano prese delle decisioni dissimili, o contraddittorie su due progetti simili, con il risultato che ambedue ne risultano danneggiati.” (Archibald, 1996)
Uno dei metodi per attribuire un livello di priorità a un progetto è quello dello Shorttest Processing Time; i progetti che richiedono minor tempo per essere completati devono avere la massima priorità.
Un altro metodo è quello di stabilire il grado di rilevanza-rischio: ad un progetto classificato con rilevanza alta e rischio alto va attribuita una alta priorità di accesso alle risorse critiche. Questo tipo di progetti vanno in un certo senso protetti, infatti, al fine di evitare ritardi nella loro esecuzione è necessario limitare al massimo le interdipendenze sulle risorse tra progetti ad alta priorità nella fase di definizione del portafoglio.
Uno dei metodi che permettono di identificare, e gestire, tutte le interdipendenze, siano esse sulle risorse o sui risultati legandole al grado di rilevanza/rischio, è quello delle tre R (De Maio, 1994):
1. Rilevanza: non solo dal punto di vista economico, ma anche di impatto per tutta l’azienda
2. Rischio: rappresenta l’impossibilità di definire con sicurezza il conseguimento degli obiettivi.
3. Risorse Critiche: la quantità di risorse critiche in azienda è una limitazione forte al numero di progetti che si possono portare avanti contemporaneamente.
Classificare i progetti rispetto a questi parametri fondamentali permette infatti di definire l’approccio più adatto per ciascun progetto, quale sia la sua priorità nell’accesso alle risorse critiche, quali forme organizzative adottare e quali siano gli strumenti di monitoraggio e controllo da utilizzare.
Si opera in pratica una selezione del portafoglio progetti mettendo in relazione le interdipendenze sulle risorse e le interdipendenze sui risultati, intese come rilevanza e rischio.
Se il portafoglio progetti non viene ritenuto soddisfacente si possono attuare degli interventi di miglioramento e di riclassificazione, ad esempio si possono effettuare degli interventi per aumentare la disponibilità di risorse critiche, oppure per aumentare la rilevanza riducendo i costi e incrementando la produttività, si può intervenire anche sulla capacità aziendale di gestire i fattori di rischio (De Maio, 1994).
In merito alla funzione di pianificazione e controllo Archibald (1996) approfondisce ulteriormente il discorso specificando che sono necessari sistemi per:
− la schedulazione e la valutazione delle operazioni;
− la valutazione della pianificazione;
− l’allocazione delle risorse.
Infine, questa funzione può essere vista come l’applicazione combinata dei moderni modelli di management e delle tecniche reticolari derivate dalla teoria dei sistemi.
venerdì 22 giugno 2007
Henry Mintzberg
di Antonio Lieto
“Towards new models in health leadership” (“Verso nuovi modelli di leadership in sanità”). Questo il titolo del seminario tenuto da Henry Mintzberg della McGill University di Montreal il 2 aprile scorso all’Università degli Studi di Salerno. Numerosi gli spunti e le riflessioni sollecitati dall’intervento di colui che il Financial Times ha definito “il più grande esperto di management a livello mondiale”. Nel corso della prima parte della sua lezione Mintzberg ha parlato in modo specifico del problema della gestione del sistema sanitario. Egli ha criticato i tradizionali modelli di gestione, ossia il modello pubblico (“non si può gestire la salute con la burocrazia e la gerarchia”) e quello privato (“we can’t think the healthcare in term of business”) ed ha ipotizzato una “terza via gestionale” alternativa ai sistemi precedenti (“oltre a Marx e ad Adam Smith c’è dell’altro” ha detto Mintzberg). Questa terza via è rappresentata dalla gestione sociale No Profit.
Mintzberg, dunque, ha proposto una sostanziale riorganizzazione del sistema sanitario ma tale riassetto, per lo studioso canadese, non deve riguardare aspetti legati esclusivamente alla struttura organizzativa ma deve essere allargato anche ai modelli di leadership che si innestano in tale struttura. E’ necessario, per Mintzberg, ripensare e ridisegnare profondamente il concetto di leadership. Bisogna passare dal concetto di leadership a quello di communityship (un modello di management partecipativo che risolva, quanto più è possibile, i problemi dal basso).
Nella seconda parte del suo intervento Mintzberg ha focalizzato l’attenzione su aspetti di natura più generale relativi all’ambito del management. Ha parlato della strategia come processo di apprendimento ed ha criticato fortemente il “mito della misurazione” che ha caratterizzato e che caratterizza alcuni corsi di management tenuti nelle più note Università e School of Management del mondo (ad esempio Harvard). Mintzberg ha cioè criticato, in sostanza, l’idea di management riassunta nella formula “if you can’t measure it you can’t manage it” (se non puoi misurare un fenomeno allora non puoi gestirlo”). Tale formula, per lo studioso canadese, è del tutto errata perché vuole, forzatamente, inquadrare il management in un’ottica di disciplina scientifica. Ma “il management, così come la medicina non è una scienza (non va alla ricerca di una Verità) bensì è una una pratica (è l’arte di far fare e di riflettere su ciò che è stato fatto)”. E’ una sorta di disciplina artigianale: “Non esistono manager creati in aula. Pertanto l’unico modo per formare i manager è prendere persone che siano già manager, che siano già inserite quotidianamente nella pratica del managment e che conoscano i problemi reali di gestione organizzativa”. In questa direzione va il suo programma di formazione manageriale denominato IMHL (International Master for Health Leadership). Tale programma dura 18 mesi ed è rivolto solo a persone che hanno già esperienza nel campo del management. Esso si compone di cinque moduli. Dopo ogni modulo i manager (dopo aver appreso ed aver discusso in aula di ciò che hanno appreso) ritornano nei loro posti di lavoro e cercano di applicare quanto hanno imparato alla loro realtà organizzativa. Dopo alcuni mesi ritornano in aula e discutono dei problemi che ciascuno ha incontrato nella propria realtà, dei risultati raggiunti e quant’altro. Questo processo di continuo andirivieni tra aula e realtà gestionale continua per tutta la durata del corso di formazione (che prevede anche uno scambio di lavoro di circa una settimana tra i partecipanti del corso. Ad esempio: per una settimana un manager di una data realtà, accompagnato dal compagno di corso-manager esperto della nuova realtà, si trova a doversi confrontare con i problemi e le richieste di un’altra realtà gestionale a lui sconosciuta).
Uno altro momento clou della lezione si è avuto quando Mintzberg ha raccontato, in modo divertente e illuminante allo stesso tempo, la storia concreta (un case history direbbero quelli bravi) di una catena di supermercati inglese che si era trovata ad affrontare il problema di “tagliare i costi”di gestione. Questo problema, tradotto operativamente, significava che ogni unità organizzativa di questa rete di supermercati aveva l’onere di licenziare dieci dipendenti.
Cosa successe? Mentre il manager di una di queste unità decise autonomamente chi licenziare causando il malcontento e l’ira anche tra coloro che restarono a lavorare, il manager di un’altra unità, invece, puntò ad una risoluzione “dal basso” del problema. Cioè, in pratica, disse ai suoi dipendenti di dover licenziare dieci persone e chiese loro: “ditemi voi chi devo licenziare”. Così, man mano, vennero autonomamente fuori dei “volontari”: una persona che aveva già deciso che avrebbe lasciato il lavoro dopo pochi mesi per reiscriversi all’università, una donna incinta che da lì a qualche mese sarebbe diventata mamma e che non aveva più intenzione di continuare a lavorare, un’altra persona che aveva deciso di cambiare lavoro e cosi via. Così facendo il manager di questa seconda unità riuscì a risolvere il problema e si conquistò anche il rispetto di tutti i dipendenti. Un chiaro esempio di come “changes can come from people” (i cambiamenti possono venire dal basso).
martedì 5 giugno 2007
Metschnikoff
La civiltà e i grandi fiumi storici
I canali dello Jangtse-Kiang e le dighe dello Hoang-ho sono con ogni probabilità il risultato del lavoro comune sagacemente organizzato di parecchie generazioni. La minima disattenzione nello scavare una fossa o nel puntellare una diga, la minima negligenza, l’egoismo di un uomo o di un gruppo di uomini nel problema della conservazione della comune ricchezza idrica, diventa, in condizioni così speciali, la fonte di disastri e calamità sociali vastissime. Perciò un nutritore fluviale […] condanna ognuno a lavori la cui utilità collettiva si rivelerà solo col tempo, e il cui piano rimane spesso affatto incomprensibile all’uomo comune.
I canali dello Jangtse-Kiang e le dighe dello Hoang-ho sono con ogni probabilità il risultato del lavoro comune sagacemente organizzato di parecchie generazioni. La minima disattenzione nello scavare una fossa o nel puntellare una diga, la minima negligenza, l’egoismo di un uomo o di un gruppo di uomini nel problema della conservazione della comune ricchezza idrica, diventa, in condizioni così speciali, la fonte di disastri e calamità sociali vastissime. Perciò un nutritore fluviale […] condanna ognuno a lavori la cui utilità collettiva si rivelerà solo col tempo, e il cui piano rimane spesso affatto incomprensibile all’uomo comune.
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