domenica 24 giugno 2007

Karl Weick: enactment e loose coupling

Dal senso al significato Coord. Giuseppina Miccoli, del_senso.doc

L’organizzazione viene definita da Weick: “come una grammatica convalidata consensualmente per la riduzione dell’ambiguità attraverso comportamenti interdipendenti dotati di senso” (Weick, 1993). E come una grammatica è la struttura di una lingua, la quale consente agli esseri umani di comunicare, di dar senso condiviso alle cose e alle azioni, allo stesso modo deve essere considerata l’azione dell’organizzazione. Noi siamo calati in mondo ambiguo ed incomprensibile e solo sviluppando un linguaggio comune, di atti, procedure, riti a cui diamo un significato univoco, possiamo dar vita ad una serie di azioni interdipendenti che generano risultati sensati. L’organizzazione serve a ridurre ambiguità ed equivoci. Essa è un’invenzione della gente che si sovrappone ai flussi d’esperienza ed impone un ordine momentaneo a questi flussi. Questo modo d’intendere l’organizzazione si basa sul presupposto cognitivista, secondo cui tutto ciò che siamo portati abitualmente a pensare come una realtà oggettiva esterna a noi, quale strutture, norme e gerarchie, non esiste se non all’interno dell’esperienza dei soggetti che la esperiscono.
Le persone cercano di organizzare, “di dar senso” al caos che le circonda arrivando così a costruire delle mappe causali. Quindi rompere un ordine, estrarre dei temi, collegare degli eventi, tutto ciò vuol dire risistemare la realtà che le persone hanno di fronte.
Queste attribuzioni di significato però differiscono a seconda delle persone; se un individuo spezza il caos di modo che si possano creare altre forme di ordine, allora è ovvio che quello che alla fine viene esaminato è la creazione dell’individuo stesso.
All’interno di un ambiente, se tutti vedono ed evitano le stesse cose e se tutti sembrano concordare su qualcosa, allora questo qualcosa deve esistere ed essere vero. Per modificare il loro ambiente le persone devono modificare dunque se stesse e le loro azioni, non qualcos’altro.
Tutto va a sottolineare l’origine soggettiva della realtà organizzativa. A tal proposito Neisser (Neisser in Weick, 1993) descrive l’enactment come “un processo di focalizzazione che si mette in atto nel momento della percezione”. Neisser asserisce che nel momento della percezione utilizziamo degli schemi che aiutano l’interpretazione. Uno schema è un’organizzazione abbreviata che serve come struttura di riferimento iniziale per l’azione e la percezione, limita la visione e, perciò, serve a mettere a fuoco parti dell’esperienza. Gli schemi sono descritti da Neisser come ricercatori d’informazioni, che accettano informazioni e che dirigono l’azione: “lo schema accetta le informazioni quando queste sono disponibili a livello sensoriale e ne viene modificato; dirige il movimento e l’attività di esplorazione che rende disponibili maggiori informazioni dalle quali viene ulteriormente modificato” (Neisser in Weick, 1993).
Esistono numerosi esempi di schemi dell’organizzazione, mappe cognitive che i membri desumono dalla loro esperienza organizzativa.
Possiamo affermare che gli oggetti raccolti nello schema consistono in comunicazioni, significati, immagini, miti e interpretazioni, che offrono tutti ampio spazio alla definizione e all’autovalidazione e anche quando le persone costruiscono nuovamente uno schema, ogni volta che ne applicano uno, deve pur sempre esistere qualcosa da cui iniziare. Ed è quel qualcosa, quell’ipotesi, quella parte recuperata dal passato che può venir elaborata alquanto rapidamente in uno schema che è come il precedente e che ha un effetto di controllo sulla percezione della gente.
L’enactment potrebbe essere ben rappresentato dal termine “efferente”, come un pensare in circolo nel quale azione, percezione ed attribuzione di significato esistono in una relazione circolare, simile ad una profezia che si autoavvera; “una profezia che si autoavvera implica un comportamento che determina negli altri la reazione rispetto a cui quel comportamento costituirebbe una reazione appropriata. Ad esempio, una persona che agisce in base alla premessa “nessuno mi ama”, si comporterà in modo diffidente, freddo, difensivo o aggressivo a cui gli altri reagiranno probabilmente senza simpatia, confermando così la sua premessa originaria. Ciò che è tipico di questa sequenza e che ne fa un problema di rilievo è che l’individuo interessato ha di sé un’immagine che è unicamente quella di una persona che reagisce, ma non che provoca quegli atteggiamenti” (Watzlawick, Beavin e Jackson in Weick, 1993).
Un fenomeno simile è stato descritto dal critico musicale Leonard Meyer come la “supposizione di logica”: “la supposizione secondo cui nell’arte nulla avviene senza ragione e che una qualsiasi causa data è sufficiente e necessaria per ciò che ha luogo è una condizione fondamentale per l’esperienza dell’arte (...) Senza questa convinzione di base l’ascoltatore non avrebbe alcuna ragione di sospendere il giudizio, rivedere le opinioni e cercare delle relazioni; il diverso, il meno probabile e l’ambiguo non avrebbero significato. Non ci sarebbe progressione, solo cambiamento. Se non credesse nella finalizzazione e nella razionalità dell’arte, l’ascoltatore abbandonerebbe i suoi sforzi per comprendere, per far riconciliare ciò che devia con ciò che esisteva prima o per cercarne la ragione d’essere in ciò che deve ancora venire” (Meyer in Weick, 1993).
La differenza con la profezia che si autoavvera è che questa è esplicita, ha un contenuto specifico, mentre la supposizione di logica è più generale dice che vi è un ordine di qualche tipo e che dipende dall’ascoltatore creare quell’ordine.
Le persone cercano di ridurre la complessità del mondo mettendo in atto una “supposizione di logica”, essi cioè suppongono che la loro visione del mondo e le azioni che a questo rivolgono siano valide; suppongono che altre persone nell’organizzazione vedranno e faranno le stesse cose ed è vero che si verifichino queste ipotesi.
Avendo supposto che il mondo è ordinato e sensato, questi soggetti costruiscono l’ordine che pensano di aver scoperto, sottovalutando di aver attivato loro stessi quell’ordine. Il concetto di ambiente costruito non è sinonimo del concetto di ambiente percepito, anche se alcune citazioni suggeriscono che è così la realtà viene percepita in modo selettivo, risistemata in modo cognitivo e negoziata in modo interpersonale.
“La realtà che ci circonda viene dunque costruita ma questa costruzione non comporta solo una negoziazione fra le persone sulla natura dell’ambiente esterno; concetti quale l’ambiente negoziato e la costruzione sociale della realtà hanno in comune l’ipotesi che la conoscenza venga acquisita con il flusso che va da un oggetto a un soggetto. L’oggetto viene percepito, viene lavorato dal punto di vista cognitivo, viene classificato in vari modi e viene connesso a svariati eventi remoti o distanti, ma la comprensione si muove anche nella direzione opposta l’effetto potenziale del soggetto sull’oggetto indica che la conoscenza è un’attività in cui il soggetto in parte interagisce con l’oggetto e lo costituisce” (Gruber e Vonèchein, in Weick, 1993).
Vi è un’influenza reciproca fra soggetto e oggetto, non un’influenza unilineare come quella implicita nell’idea secondo cui uno stimolo innesca una risposta. Nel modello dell’organizzare questa influenza reciproca viene colta dall’influenza a doppio senso fra l’enactment e il cambiamento ecologico. L’ambiente costruito è dunque una traduzione sensata di eventi precedentemente archiviati che formano delle mappe causali, le quali interagiscono (modificano e sono a loro volta modificate) con le situazioni in corso.
Altro concetto importante è quello di connessione debole (loose coupling), che Weick propone per l’analisi delle organizzazioni scolastiche, ma che in seguito è stato utilizzato anche in altri tipi di organizzazioni.
“Immaginate di essere arbitro, allenatore, giocatore o spettatore di una singolare partita di calcio: il campo è a forma circolare, le porte sono più di due e sono sparse disordinatamente lungo i bordi del campo; i partecipanti possono entrare e uscire dal campo a piacere: possono dire “ho fatto goal”, per quanto vogliono, in ogni momento e per quante volte vogliono; tutta la partita si svolge su un terreno inclinato e viene giocata come se avesse senso (...) Ora, se sostituiamo nell’esempio l’arbitro con il preside, gli allenatori con gli insegnanti, i giocatori con gli studenti, gli spettatori con i genitori e il calcio con l’attività scolastica, si ottiene una descrizione altrettanto singolare delle organizzazioni scolastiche. Il fascino di questa descrizione sta nel fatto che essa coglie all’interno delle organizzazioni scolastiche un nucleo di realtà diverse da quelle che possono essere evidenziate nelle stesse organizzazioni dalle posizioni classiche della teoria burocratica” (Zan in Bonazzi, 1995). In sostanza Weick ci invita a leggere in modo cognitivistico ciò che avviene all’interno di una scuola, le varie componenti agiscono cercando innanzitutto di conferire senso alle proprie azioni, dentro uno specifico ambiente di esperienza e questo ambiente è debolmente connesso con altri ambienti. Il nucleo insegnante-classe-genitori-programma di studi definisce un sub-sistema a sé, con una sua logica ed un suo significato, perché ha solo pochi elementi in comune con l’altro sub-sistema scolastico formato dal nucleo direttore-vicedirettore-ispettore. Ciò non vuol dire che l’organizzazione scolastica si disintegra a causa delle spinte centrifughe. Essa può continuare ad esistere e a funzionare proprio perché le sue connessioni interne sono lasche, sufficienti a garantire un coordinamento minimo su determinate questioni, ma non così pervasive da serrare tutto con tutto. Le connessioni deboli garantiscono la persistenza temporale delle organizzazioni, si possono modificare delle parti senza che l’intero sistema sia coinvolto nel cambiamento; si possono inventare soluzioni particolari nei sub-sistemi, non adattabili all’intero sistema. Le connessioni deboli possono essere anche negate dalle autorità ufficiali, possono non essere istituzionalizzate, ma ciò che conta è il loro persistere di fatto nell’esperienza dei soggetti.
La metafora della partita di calcio indica che in sé quella realtà non ha significato, se non nel conferimento di senso che i vari partecipanti attribuiscono a quella situazione.
L’organizzazione non si arresta perché le connessioni deboli garantiscono quel coordinamento minimo necessario.
Weick sostiene che le varie parti possono interagire tra loro con legami a forza variabile che dipendono dal senso conferito alla realtà da parte dei soggetti e quanto più i legami sono deboli, tanto più i soggetti sono portati a impegnarsi in uno sforzo di costruzione della realtà sociale che dà luogo a numerosi miti, significati condivisi, necessari per rendere maggiormente percettibile il mondo nel quale sono immersi.

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